lunedì 7 maggio 2007

i cani di pavlov

In questo post tento un accenno di analisi ad una situazione troppo spesso verificatasi nell’area culturale di mia appartenenza, la sinistra radicale: ovvero l’abbandono di tematiche agli avversari ed il rifugiarsi in formulette stereotipate, invece di cercare vie alternative nel proprio quadro ideale ed ideologico.


Appartengo, per meditata scelta ideale ed ideologica, all’area che è comunemente denominata sinistra radicale. Tale scelta mi è parsa quasi d’obbligo di fronte ad alcuni dati di fatto sotto gli occhi di tutti, come l’inefficienza delle ricette correnti per la lotta alla povertà interna ed internazionale, la salvaguardia dell’ambiente, la costruzione di un mondo meno litigioso e più pacificato.
Tuttavia l’appartenenza non può esimermi, semmai anzi mi obbliga, dal constatare taluni aspetti singolari, spesso di una esasperante meccanicità, di azione – reazione che si riscontra in alcuni (non tutti, sia chiaro) militanti e rappresentanti. Ovvero, ad una situazione data, sovente si risponde in uno ed un solo modo, senza contemplare altre possibilità che non siano in contrasto con i postulati della propria appartenenza ideale.
Un esempio eclatante: sappiamo che esiste una certa percentuale della popolazione, che chiameremo per semplicità razzisti, la quale reagisce sfavorevolmente all’ “estraneo”, sia esso proveniente dal comune limitrofo o da Venere. Con questa minoranza non c’è discussione possibile: ciò nondimeno, assimilare a questa minoranza chiunque denunci oggettivi problemi di convivenza e confronto con gli “estranei” è un autogol clamoroso che spesso la sinistra radicale segna. Le parole d’ordine in questi casi sono sempre le stesse: tolleranza, assimilazione, diritti di cittadinanza eccetera. Sacrosante, non vi è dubbio.
Ma queste parole d’ordine trascurano l’altro aspetto dell’immigrazione, che è la lacerazione psico culturale che il migrante di prima generazione soffre a lasciare il suo paese. Trascurano un altro aspetto fondamentale, che è quello di arginare le future migrazioni, non per ottuso razzismo, ma per non svuotare di cultura, energie, vitalità i paesi del terzo mondo. Aprire le porte di casa senza preoccuparsi di una seria politica di reinsediamento degli immigrati o di contenimento della migrazione, attraverso progetti mirati che consentano la creazione di imprenditoria, di un tessuto socio economico produttivo nei paesi sempiternamente in via di sviluppo non è radicale: è miope.
Un’altra reazione tipicizzata è quella che si innesca di fronte alle critiche al settore pubblico: chiaro che se la critica è all’esistenza della “mano pubblica” tout court non c’è dialogo che tenga.
Ma, laddove l’oggetto degli attacchi sia l’inefficienza parassitaria di alcuni settori della burocrazia, inamovibilità dei titolari di impieghi dalle loro posizioni, l’irragionevolezza di alcuni privilegi, allora il radicalismo – a mio sommesso avviso – dovrebbe imporre un durissimo attacco ‘da sinistra’ a determinate situazioni. Richiamarsi agli inalienabili diritti dei lavoratori non ha molta presa su strati operai e, perché no, intellettuali, che magari sotto diversi i profili della profusione del lavoro manuale o di quello intellettuale la sera tornano a casa prostrati dalla fatica. Perciò i dipendenti pubblici, oltre a meritare le tutele da accordare a tutti i lavoratori, dovrebbero rammentare un po’ più spesso di essere al servizio dei cittadini e non viceversa e regolarsi di conseguenza. In mancanza, una politica che sia realmente di sinistra radicale impone l’applicazione di gravi sanzioni, ivi compreso il licenziamento, oltre a legittimare lo scardinamento di varie roccaforti di inerzia parassitaria, ancora esistenti.
Un altro tema che fa salivare al suono del campanello la sinistra radicale nostrana è quello del contrasto alla criminalità organizzata. Agire sul versante della prevenzione, sradicando la mala pianta della mafia attraverso la creazione di un tessuto economico efficiente che inglobi i soggetti che costituiscono la manovalanza delle associazioni criminali non è giusto: è sacrosanto. Ma, a questo imprescindibile momento, andrebbe aggiunta – a mio parere – una valorizzazione della repressione. Quando parliamo di manovalanza criminale non dobbiamo avere sotto gli occhi solo ceti sottoproletarizzati, privi di ogni opportunità di sopravvivenza che non sia la mafia, in fervida attesa di opportunità di redenzione. Dobbiamo anche immaginare un vasto strato di popolazione portatore di una sottocultura anti statalista, imperniata di familismo amorale e logiche di clan. A queste persone va spiegato, attraverso l’apparato repressivo, che il nostro clan (lo stato) è più forte e più duro del loro e contro di esso non vi è nulla da fare. Quando lo avranno capito, saranno pronti ad essere riassorbiti dal tessuto economico eccetera eccetera ed essere cittadini produttivi.
Gli esempi di salivazione pavloviana della sinistra radicale potrebbero continuare, ma mi fermo qui. Basta comunque sapere che i cani di pavlov non sono mai stati un esempio di intelligenza, semmai l’opposto.
Soprattutto, sbavando al suono di campanelli si perdono consensi e aderenza alla realtà.
Per vincere non occorre farsi uguali agli altri, per carità. Ma per perdere radicamento sociale è sufficiente lasciare che alcuni temi scottanti facciano parte dell’agenda degli avversari e non della propria e non elaborare sugli stessi alcuna soluzione alternativa a quella proposta dall’antagonista.

venerdì 4 maggio 2007

Legalità vo cercando, che è sì cara.....

Il tema della legalità per me riveste un'importanza fondamentale, sotto il profilo delle definizioni e delle problematiche che esso pone.
Dato il mio proposito, mi sembra quantomeno opportuno proporre delle riflessioni che, mi auguro, abbiano un seguito nel dibattito delle idee.
La legalità: potremmo paragonarla ad un bene che, nell’insieme, bramiamo e distruggiamo. Ad esempio il commerciante o l’imprenditore taglieggiati dal racket giustamente pretendono che lo Stato ripristini la legalità, punendo gli estorsori; tuttavia nel contempo all’interno delle loro attività vi si possono trovare lavoratori al nero o sottopagati. Una contraddizione? Certo, ma la si può risolvere proponendo un patto di cittadinanza tra governanti e governati, ove i primi si impegnano a tutelare ed incrementare la legalità e difendere i diritti fondamentali di cittadinanza, mentre i secondi si obbligano al rispetto delle regole e dei limiti imposti dallo stato, anche laddove questi ledono i loro interessi immediati.
Da ciò discende un fatto di tutta evidenza: la legalità è difficile, richiede sovente una notevole dose di coraggio nei cittadini e nelle istituzioni e si regge su un complesso equilibrio di diritti e doveri.
La tentazione dell’ordine: chiunque abbia la ventura di occuparsi, a qualsiasi livello, della cosa pubblica, spesso parla di legalità e promette di attuarla, ma pensa – anche inconsciamente – all’ordine. Quest’ultimo è facile da realizzare: un poliziotto o un militare ad ogni angolo ed ecco fatto, è di immediato impatto per i cittadini e consente di spendere parole d’ordine di grande forza mediatica come “Tolleranza Zero” o simili. Peccato che legalità ed ordine siano cose ben diverse: un governo dittatoriale può comprendere in sé il massimo di ordine ed azzerare la legalità, violando gli elementari diritti dei cittadini.
A volte noi politici tendiamo a semplificare, perché, come detto sopra, la legalità è difficile da ottenere, rispettare e far rispettare.
Ma infine: cos’è questa legalità? La stessa potrebbe definirsi – tra le varie definizioni accettabili – come rispondenza dei comportamenti della pubblica amministrazione e dei cittadini alle leggi ed ai regolamenti, nonché come criterio regolativo della condotta dell’amministrazione e dei privati nella propria azione quotidiana.
Abbiamo detto tutto? Si e no, perché i problemi incominciano quando si pone mente ai periodi di crisi, in cui la vecchia legalità viene messa in discussione dall’emergere di nuove istituzioni, nuovi diritti e nuovi attori della classe sociale. Chi è nella legalità? Il padrone della ferriera che pretende dai suoi operai sottopagati dieci ore di lavoro giornaliere o gli operai che scioperano per salari più alti ed orari più umani? Il governo della RSI o i partigiani? Un groviglio di problemi antico quanto la formazione delle istituzioni.
Mi sembra che una delle riflessioni più interessanti sulla legalità sia stata suscitata dai primi cinque versetti del capitolo 13 della Lettera ai Romani di San Paolo, che invito a rileggere. Qui l’apostolo predica, letteralmente, il rispetto delle istituzioni, incarnate dal magistrato (inteso nel senso lato di pubblico amministratore) che “non porta la spada invano”. Una mera esortazione al rispetto dei poteri costituiti? Si e no, perché da questi versetti scaturisce un complesso dibattito, specialmente nel mondo protestante. Calvino ritenne che laddove i “magistrati superiori” (tra i quali, di certo, vi era il re) si macchiassero di iniquità, era legittimo il ricorso del popolo ai “magistrati inferiori”. Beninteso in periodi di crisi politica o sociale ciò implicava rotture piuttosto clamorose dello status quo. Il suo successore Teodoro di Beza fa un passo innanzi: dopotutto, secondo costui, al di sotto dei “magistrati inferiori” vi è il popolo, autentico depositario della sovranità. Pertanto al popolo è lecito intervenire nella costruzione di una nuova legalità (una legalità rivoluzionaria, potremmo dire) nell’ipotesi di iniquità dei magistrati.
Altro che mera osservanza delle istituzioni esistenti, come talvolta letteralisticamente ritenuto.
Un tema, questo della legalità, che mi auguro di ampliare, anche con l'aiuto di eventuali commenti.

ABBASSARE I TONI, ALZARE IL TIRO

Il "caso Rivera": ultimo terreno di scontro con la chiesa di Roma. Potevo astenermi dal prendere posizione? :) Tratto dal sito www.comunisti-italiani.it.
Commento di: nahaman
(Postato il 05-04-2007 alle 01:00 pm)

Mai da anni, come in questo momento, la libertà d'espressione, di pensiero, la laicità e pluralità dello stato sono sotto attacco. Paradossalmente l'esistenza di un "partito unico dei cattolici" ne rendeva meno pervasiva la loro presenza nel sistema politico, visto che ora teo dem e teo con allignano anche nel costituendo Partito Democratico. L'informazione, dal canto suo, prepara un'unica marmellata, nella quale saponifica le minacce a Bagnasco, le espressioni più alte di difesa della laicità dello Stato, l'anticlericalismo più becero, il diritto della Chiesa ad esprimersi sulle questioni morali, l'indebita ingerenza nelle leggi secolari e, perchè no, l'onnipresente minaccia islamica, alibi e paravento ad una rivendicazione identitaria autoritaria da parte della Chiesa Cattolica.Ecco perchè si deve e si può controinformare, sfruttando le potenzialità di internet ed evitare trappole dialettiche e toni esagitati. L'appello che segue, sottoscritto da intellettuali atei, costituisce un'ottima arma di sfiducia verso questo Vaticano, che colpisce dove fa più male: nel portafoglio. Togliere l'8 x 1000 alla chiesa di Roma rappresenta una mozione di sfiducia alla chiesa di Ratzinger, Ruini, Bagnasco ecc. Invito i frequentatori di questo blog a copiare l'appello, diffonderlo via mail ai loro contatti, postarlo nel loro blog ma, soprattutto, a formulare scelte alternative per l'8 x 1000. Qui si propone la chiesa valdese, la cui destinazione dell'8 x 1000 è puramente sociale e non a fini di culto. Invito gli interessati a verificare sul sito della chiesa valdese (www.chiesavaldese.org) le modalità di impiego di queste somme. Ecco di seguito il testo dell'appello.
SEGUE IL TESTO DELL'APPELLO PER L'8 X 1000 AI VALDESI