Il pezzo che segue, tratto da www.chiesavaldese.org, é un saggio della rubrica che settimanalmente il Pastore Paolo Ricca tiene sul settimanale "Riforma".
L'autore, partendo dall'articolata domanda di una lettrice, propone una riflessione ad ampio raggio su temi quali matrimonio, stato, coppie di fatto, rapporti con la Chiesa Cattolica.
Leggo nell’unico testo che un po’ conosco, cioè il Testo comune: I matrimoni tra cattolici e valdesi o metodisti in Italia, al punto 2.5, verso la fine: «La Chiesa valdese non attribuisce rilevanza ai matrimoni senza effetti civili, la cui celebrazione è espressamente prevista dalla normativa cattolica». Ero perfettamente d’accordo con questo modo di procedere, perché consideravo la pratica di risposarsi in Chiesa cattolica senza effetti civili un trucco da parte di persone rimaste vedove per non perdere per esempio la pensione di reversibilità e quindi ingannare l’Inps. L’avanzare dell’età e l’esperienza di amici cattolici che hanno scelto questa forma per vivere una seconda vita matrimoniale mi hanno fatto riflettere e hanno spento la «giovanile» forma di condanna che riservavo a questi casi. Questi amici hanno voluto avere una benedizione per la nuova vita coniugale che hanno iniziato, senza per questo rinnegare l’esperienza precedente, anzi spesso continuando insieme la testimonianza che i coniugi defunti hanno dato.Ora mi chiedo: se nella Chiesa valdese si presentasse una coppia che chiedesse la benedizione sulla unione che vogliono iniziare, sarebbe loro negata? E ancora, la coppia potrebbe essere non solo di vedovi che vogliono sostenersi a vicenda negli ultimi anni della loro vita (in un modo che ho visto molto applicato in ambiente ebraico), ma anche di giovani, magari dello stesso sesso, che decidono di vivere insieme e chiedono che la comunità sia testimone del loro desiderio di chiedere al Signore di benedire la loro unione: come si deve comportare la comunità valdese? Sono casi che sono stati presi in considerazione?
Myriam Venturi Marcheselli – Milano
Il Testo comune citato dalla nostra lettrice è il Testo comune per un indirizzo pastorale dei matrimoni tra cattolici e valdesi o metodisti in Italia, sottoscritto a Roma il 16 giugno 1997 dall’allora moderatore della Tavola valdese Gianni Rostan e dall’allora presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) cardinale Camillo Ruini. Si tratta di un accordo bilaterale ufficiale sui matrimoni misti o interconfessionali tra la Chiesa valdese e la Cei – il primo documento del genere e, finora, l’unico – raggiunto dopo un dialogo avvenuto dal 1989 e il 1993 tra due commissione nominate rispettivamente dal Sinodo valdese e dalla presidenza della Cei. Al Testo comune seguì nel 2000 un Testo applicativo che rende operative le indicazioni di ordine pastorale contenute nel Testo comune. Colgo l’occasione per segnalare il particolare valore di questi due testi, sia perché finora sono, come ho detto, l’unico documento frutto di un dialogo ufficiale avvenuto in Italia da parte di una Chiesa evangelica e della Chiesa cattolica, sia perché il Testo comune è, a mio giudizio, un modello di documento ecumenico, in quanto contiene una prima parte intitolata «Ciò che come cristiani possiamo dire in comune sul matrimonio», mentre nella seconda si espongono le «Differenze e divergenze», e nella terza si forniscono «Indicazioni ed orientamenti circa la pastorale dei matrimoni misti». È un modello in quanto vi si trova chiaramente esposto ciò che, riguardo al matrimonio, unisce cattolici e protestanti e ciò che li divide, dopo di che si dice come sia possibile affrontare insieme questa situazione in modo costruttivo.
È nella seconda parte del Testo comune che si trova la frase citata dalla nostra lettrice, secondo la quale la Chiesa valdese «non attribuisce rilevanza ai matrimoni senza effetti civili», cioè ai matrimoni comunque e dovunque celebrati, che non siano stati resi di pubblico dominio attraverso le «pubblicazioni» e che non siano poi stati registrati negli uffici anagrafici del Comune. Qui effettivamente ci troviamo di fronte a una divergenza notevole tra la dottrina cattolica e quella protestante. La dottrina cattolica considera perfettamente validi i matrimoni celebrati solo in Chiesa, davanti a un sacerdote e ad almeno due testimoni, senza «effetti civili», cioè senza coinvolgere in alcun modo l’autorità civile (in questo caso, il Comune). La dottrina protestante invece «non attribuisce rilevanza» ai matrimoni che, benché celebrati in Chiesa, restino «senza effetti civili», cioè li considera come non avvenuti.
Da dove proviene questa divergenza? Proviene dalla diversa concezione della natura del matrimonio. Cattolici e protestanti sono concordi nel considerare il matrimonio una condizione di vita voluta da Dio, iscritta fin dall’inizio nel disegno del Creatore che, creando la creatura umana, la creò «maschio e femmina» (Genesi 1, 27). La dottrina cattolica però considera il matrimonio un sacramento, sul quale la Chiesa ha competenza non solo teologica, ma anche giuridica; in quanto sacramento il matrimonio le appartiene e la Chiesa è pienamente autosufficiente nel gestirlo. Anche se i ministri del matrimonio sono i due coniugi, mentre il sacerdote ne è il testimone, una coppia di cattolici sposata solo in Comune, senza dispensa del vescovo, per la dottrina cattolica non è sposata. La dottrina protestante è diversa: pur essendo riconosciuto e vissuto come istituzione e dono di Dio, il matrimonio non è sacramento, non appartiene alla Chiesa (anche se essa lo celebra e invita i credenti a viverlo secondo la Parola di Dio), ma a ogni uomo e ogni donna, è un dono che Dio fa a tutti, come il sole e la pioggia, rientra quindi anzitutto nelle competenze della comunità civile.In uno scritto del 1530 intitolato Sulle questioni matrimoniali, Lutero afferma che il matrimonio è «una cosa esteriore, mondana, come i vestiti e il cibo, la casa e il cortile, soggetta all’autorità terrena…», pur dicendo anche, nel Grande Catechismo, che il matrimonio è «uno stato di vita divino, beato», che Dio ha benedetto «nel modo più ricco, più di ogni altro stato di vita», tanto che la condizione matrimoniale «precede e supera tutte le altre condizioni umane, si tratti di re, principi, papi, vescovi o di chiunque altro». Il matrimonio è dunque tenuto da Lutero e da tutta la Riforma in altissimo onore, esso però resta «una cosa mondana», cioè un dato della società civile. Siccome è una condizione che riguarda l’intera popolazione, tocca all’«autorità terrena», allo Stato disciplinare questa complessa materia con leggi apposite. In perfetta continuità con questi pensieri, il Documento sul matrimonio del Sinodo valdese del 1971 afferma che «il matrimonio, come fatto sociale, è soggetto alle norme dettate dalla società civile, che ne indica i caratteri giuridici».
Ecco perché la Chiesa valdese «non attribuisce rilevanza ai matrimoni senza effetti civili»: perché pensa che la legge competente a regolare il matrimonio sia quella dello dallo Stato, e un matrimonio che sia posto in essere «senza effetti civili», cioè indipendentemente dalla legge dello Stato è, letteralmente «fuori legge», cioè non esiste. Esiste, certo, come convivenza privata di due persone che decidono di vivere insieme, ma non c’è matrimonio pubblicamente costituito e registrato. Se non è o sarà registrato dallo Stato, non può essere preso in considerazione neppure dalla Chiesa.
Fatto questo discorso di carattere generale per spiegare la frase citata del Testo comune, cercherò di rispondere alle domande specifiche poste dalla nostra lettrice. Le domande sono due, anche se, a ben guardare, sono una sola, posta in due contesti diversi.
1. La prima è generale: la Chiesa valdese è disposta a benedire una «coppia di fatto» (così oggi le si chiama), cioè una libera convivenza tra due persone, che però non intendono far seguire alla celebrazione gli effetti civili? Se per «benedire» si intende una vera e propria cerimonia nuziale, la mia risposta è negativa, per la ragione appena detta: il matrimonio è fondamentalmente laico (anche se il credente lo vive nella fede, secondo la Parola di Dio), è un fatto civile, soggetto come tale alle leggi dello Stato. Celebrare un matrimonio in Chiesa all’insaputa dello Stato significa, da parte dei coniugi e del pastore che celebra, violare il patto di lealtà che ogni cittadino stabilisce con lo Stato nel momento in cui accetta di esserne parte. Se invece si intende «benedire» non nel senso di celebrare un matrimonio, ma semplicemente di chiedere a Dio in preghiera di benedire, cioè di accompagnare, fortificare nell’amore, guidare nel cammino comune, una coppia che convive, la mia risposta è positiva. Va da sé che occorrerà valutare caso per caso l’opportunità di momenti liturgici di questo genere, ma in generale è non solo possibile, ma raccomandabile pregare per un uomo e una donna che liberamente convivono, nell’amore e nella fedeltà: una simile convivenza non è in sé, a mio giudizio, né trasgressiva, né, tanto meno, scandalosa. In fondo, Adamo ed Eva non si sono sposati, si sono semplicemente uniti.Si dirà: «Non c’era nessuno che li potesse sposare». Appunto: gli artefici del matrimonio sono gli sposi, e nessun altro. Si dirà ancora: «Allora non c’era la Chiesa». Appunto: la Chiesa prega per gli sposi e, in nome di Dio, li benedice, ma non è lei che pone in essere il matrimonio, bensì gli sposi. Un altro ancora dirà: «Allora non c’era lo Stato». Appunto: non è lo Stato che pone in essere il matrimonio, bensì gli sposi. Lo Stato lo registra raccogliendo il loro consenso, e lo pubblicizza. Questa registrazione e pubblicizzazione sono però importanti e, secondo me, doverose, sia per il buon ordine della Comunità civile, sia per una migliore tutela dell’eventuale prole.
2. La seconda domanda è più specifica: la Chiesa valdese è disposta a benedire una coppia omosessuale? Un parere della Chiesa, cioè del Sinodo, a mia conoscenza, non c’è. I pareri sono quindi per ora solo personali. La questione è, come tutti sanno, altamente controversa: le Chiese sono divise. Siamo appena agli inizi di una riflessione faticosa, nella quale non è facile avanzare e neppure orientarsi. Se provo a rispondere, non è perché ci veda chiaro, ma solo per non eludere il problema. Qui veramente procedo «a tastoni» (Atti 17, 27). Benedire in Chiesa una coppia omosessuale? Anche qui bisogna intendersi sul significato di «benedire». Se significa «rendere fecondi» nel senso della capacità della coppia di procreare, mi pare che questo non si addica a una coppia omosessuale. Se invece si tratta – come ho detto al punto precedente – di chiedere a Dio in preghiera di accompagnare e guidare la coppia nell’amore fedele e nell’aiuto reciproco, questo è senza dubbio possibile e auspicabile.
Concludo. La nostra lettrice dice che, avanzando nell’età, ha abbandonato certi giovanili atteggiamento di «condanna» di quei cattolici che celebravano i cosiddetti «matrimoni di coscienza» per tanti motivi, tra i quali uno non secondario era quello di salvaguardare la pensione di reversibilità, «ingannando l’Inps». È vero che non sta a noi condannare nessuno, però possiamo e dobbiamo dissociarci da quella prassi e da quel tipo di matrimoni che, più che «di coscienza», sono «di convenienza». Vorrei dunque dire alla nostra lettrice che, condanna a parte, aveva ragione quando era giovane.
Tratto dalla rubrica "Dialoghi con Paolo Ricca" del settimanale Riforma del 25 aprile 2008