giovedì 24 aprile 2008

Matrimonio, benedizione, chiesa e stato

Il pezzo che segue, tratto da www.chiesavaldese.org, é un saggio della rubrica che settimanalmente il Pastore Paolo Ricca tiene sul settimanale "Riforma".
L'autore, partendo dall'articolata domanda di una lettrice, propone una riflessione ad ampio raggio su temi quali matrimonio, stato, coppie di fatto, rapporti con la Chiesa Cattolica.
Leggo nell’unico testo che un po’ conosco, cioè il Testo comune: I matrimoni tra cattolici e valdesi o metodisti in Italia, al punto 2.5, verso la fine: «La Chiesa valdese non attribuisce rilevanza ai matrimoni senza effetti civili, la cui celebrazione è espressamente prevista dalla normativa cattolica». Ero perfettamente d’accordo con questo modo di procedere, perché consideravo la pratica di risposarsi in Chiesa cattolica senza effetti civili un trucco da parte di persone rimaste vedove per non perdere per esempio la pensione di reversibilità e quindi ingannare l’Inps. L’avanzare dell’età e l’esperienza di amici cattolici che hanno scelto questa forma per vivere una seconda vita matrimoniale mi hanno fatto riflettere e hanno spento la «giovanile» forma di condanna che riservavo a questi casi. Questi amici hanno voluto avere una benedizione per la nuova vita coniugale che hanno iniziato, senza per questo rinnegare l’esperienza precedente, anzi spesso continuando insieme la testimonianza che i coniugi defunti hanno dato.Ora mi chiedo: se nella Chiesa valdese si presentasse una coppia che chiedesse la benedizione sulla unione che vogliono iniziare, sarebbe loro negata? E ancora, la coppia potrebbe essere non solo di vedovi che vogliono sostenersi a vicenda negli ultimi anni della loro vita (in un modo che ho visto molto applicato in ambiente ebraico), ma anche di giovani, magari dello stesso sesso, che decidono di vivere insieme e chiedono che la comunità sia testimone del loro desiderio di chiedere al Signore di benedire la loro unione: come si deve comportare la comunità valdese? Sono casi che sono stati presi in considerazione?
Myriam Venturi Marcheselli – Milano
Il Testo comune citato dalla nostra lettrice è il Testo comune per un indirizzo pastorale dei matrimoni tra cattolici e valdesi o metodisti in Italia, sottoscritto a Roma il 16 giugno 1997 dall’allora moderatore della Tavola valdese Gianni Rostan e dall’allora presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) cardinale Camillo Ruini. Si tratta di un accordo bilaterale ufficiale sui matrimoni misti o interconfessionali tra la Chiesa valdese e la Cei – il primo documento del genere e, finora, l’unico – raggiunto dopo un dialogo avvenuto dal 1989 e il 1993 tra due commissione nominate rispettivamente dal Sinodo valdese e dalla presidenza della Cei. Al Testo comune seguì nel 2000 un Testo applicativo che rende operative le indicazioni di ordine pastorale contenute nel Testo comune. Colgo l’occasione per segnalare il particolare valore di questi due testi, sia perché finora sono, come ho detto, l’unico documento frutto di un dialogo ufficiale avvenuto in Italia da parte di una Chiesa evangelica e della Chiesa cattolica, sia perché il Testo comune è, a mio giudizio, un modello di documento ecumenico, in quanto contiene una prima parte intitolata «Ciò che come cristiani possiamo dire in comune sul matrimonio», mentre nella seconda si espongono le «Differenze e divergenze», e nella terza si forniscono «Indicazioni ed orientamenti circa la pastorale dei matrimoni misti». È un modello in quanto vi si trova chiaramente esposto ciò che, riguardo al matrimonio, unisce cattolici e protestanti e ciò che li divide, dopo di che si dice come sia possibile affrontare insieme questa situazione in modo costruttivo.
È nella seconda parte del Testo comune che si trova la frase citata dalla nostra lettrice, secondo la quale la Chiesa valdese «non attribuisce rilevanza ai matrimoni senza effetti civili», cioè ai matrimoni comunque e dovunque celebrati, che non siano stati resi di pubblico dominio attraverso le «pubblicazioni» e che non siano poi stati registrati negli uffici anagrafici del Comune. Qui effettivamente ci troviamo di fronte a una divergenza notevole tra la dottrina cattolica e quella protestante. La dottrina cattolica considera perfettamente validi i matrimoni celebrati solo in Chiesa, davanti a un sacerdote e ad almeno due testimoni, senza «effetti civili», cioè senza coinvolgere in alcun modo l’autorità civile (in questo caso, il Comune). La dottrina protestante invece «non attribuisce rilevanza» ai matrimoni che, benché celebrati in Chiesa, restino «senza effetti civili», cioè li considera come non avvenuti.
Da dove proviene questa divergenza? Proviene dalla diversa concezione della natura del matrimonio. Cattolici e protestanti sono concordi nel considerare il matrimonio una condizione di vita voluta da Dio, iscritta fin dall’inizio nel disegno del Creatore che, creando la creatura umana, la creò «maschio e femmina» (Genesi 1, 27). La dottrina cattolica però considera il matrimonio un sacramento, sul quale la Chiesa ha competenza non solo teologica, ma anche giuridica; in quanto sacramento il matrimonio le appartiene e la Chiesa è pienamente autosufficiente nel gestirlo. Anche se i ministri del matrimonio sono i due coniugi, mentre il sacerdote ne è il testimone, una coppia di cattolici sposata solo in Comune, senza dispensa del vescovo, per la dottrina cattolica non è sposata. La dottrina protestante è diversa: pur essendo riconosciuto e vissuto come istituzione e dono di Dio, il matrimonio non è sacramento, non appartiene alla Chiesa (anche se essa lo celebra e invita i credenti a viverlo secondo la Parola di Dio), ma a ogni uomo e ogni donna, è un dono che Dio fa a tutti, come il sole e la pioggia, rientra quindi anzitutto nelle competenze della comunità civile.In uno scritto del 1530 intitolato Sulle questioni matrimoniali, Lutero afferma che il matrimonio è «una cosa esteriore, mondana, come i vestiti e il cibo, la casa e il cortile, soggetta all’autorità terrena…», pur dicendo anche, nel Grande Catechismo, che il matrimonio è «uno stato di vita divino, beato», che Dio ha benedetto «nel modo più ricco, più di ogni altro stato di vita», tanto che la condizione matrimoniale «precede e supera tutte le altre condizioni umane, si tratti di re, principi, papi, vescovi o di chiunque altro». Il matrimonio è dunque tenuto da Lutero e da tutta la Riforma in altissimo onore, esso però resta «una cosa mondana», cioè un dato della società civile. Siccome è una condizione che riguarda l’intera popolazione, tocca all’«autorità terrena», allo Stato disciplinare questa complessa materia con leggi apposite. In perfetta continuità con questi pensieri, il Documento sul matrimonio del Sinodo valdese del 1971 afferma che «il matrimonio, come fatto sociale, è soggetto alle norme dettate dalla società civile, che ne indica i caratteri giuridici».
Ecco perché la Chiesa valdese «non attribuisce rilevanza ai matrimoni senza effetti civili»: perché pensa che la legge competente a regolare il matrimonio sia quella dello dallo Stato, e un matrimonio che sia posto in essere «senza effetti civili», cioè indipendentemente dalla legge dello Stato è, letteralmente «fuori legge», cioè non esiste. Esiste, certo, come convivenza privata di due persone che decidono di vivere insieme, ma non c’è matrimonio pubblicamente costituito e registrato. Se non è o sarà registrato dallo Stato, non può essere preso in considerazione neppure dalla Chiesa.
Fatto questo discorso di carattere generale per spiegare la frase citata del Testo comune, cercherò di rispondere alle domande specifiche poste dalla nostra lettrice. Le domande sono due, anche se, a ben guardare, sono una sola, posta in due contesti diversi.
1. La prima è generale: la Chiesa valdese è disposta a benedire una «coppia di fatto» (così oggi le si chiama), cioè una libera convivenza tra due persone, che però non intendono far seguire alla celebrazione gli effetti civili? Se per «benedire» si intende una vera e propria cerimonia nuziale, la mia risposta è negativa, per la ragione appena detta: il matrimonio è fondamentalmente laico (anche se il credente lo vive nella fede, secondo la Parola di Dio), è un fatto civile, soggetto come tale alle leggi dello Stato. Celebrare un matrimonio in Chiesa all’insaputa dello Stato significa, da parte dei coniugi e del pastore che celebra, violare il patto di lealtà che ogni cittadino stabilisce con lo Stato nel momento in cui accetta di esserne parte. Se invece si intende «benedire» non nel senso di celebrare un matrimonio, ma semplicemente di chiedere a Dio in preghiera di benedire, cioè di accompagnare, fortificare nell’amore, guidare nel cammino comune, una coppia che convive, la mia risposta è positiva. Va da sé che occorrerà valutare caso per caso l’opportunità di momenti liturgici di questo genere, ma in generale è non solo possibile, ma raccomandabile pregare per un uomo e una donna che liberamente convivono, nell’amore e nella fedeltà: una simile convivenza non è in sé, a mio giudizio, né trasgressiva, né, tanto meno, scandalosa. In fondo, Adamo ed Eva non si sono sposati, si sono semplicemente uniti.Si dirà: «Non c’era nessuno che li potesse sposare». Appunto: gli artefici del matrimonio sono gli sposi, e nessun altro. Si dirà ancora: «Allora non c’era la Chiesa». Appunto: la Chiesa prega per gli sposi e, in nome di Dio, li benedice, ma non è lei che pone in essere il matrimonio, bensì gli sposi. Un altro ancora dirà: «Allora non c’era lo Stato». Appunto: non è lo Stato che pone in essere il matrimonio, bensì gli sposi. Lo Stato lo registra raccogliendo il loro consenso, e lo pubblicizza. Questa registrazione e pubblicizzazione sono però importanti e, secondo me, doverose, sia per il buon ordine della Comunità civile, sia per una migliore tutela dell’eventuale prole.
2. La seconda domanda è più specifica: la Chiesa valdese è disposta a benedire una coppia omosessuale? Un parere della Chiesa, cioè del Sinodo, a mia conoscenza, non c’è. I pareri sono quindi per ora solo personali. La questione è, come tutti sanno, altamente controversa: le Chiese sono divise. Siamo appena agli inizi di una riflessione faticosa, nella quale non è facile avanzare e neppure orientarsi. Se provo a rispondere, non è perché ci veda chiaro, ma solo per non eludere il problema. Qui veramente procedo «a tastoni» (Atti 17, 27). Benedire in Chiesa una coppia omosessuale? Anche qui bisogna intendersi sul significato di «benedire». Se significa «rendere fecondi» nel senso della capacità della coppia di procreare, mi pare che questo non si addica a una coppia omosessuale. Se invece si tratta – come ho detto al punto precedente – di chiedere a Dio in preghiera di accompagnare e guidare la coppia nell’amore fedele e nell’aiuto reciproco, questo è senza dubbio possibile e auspicabile.
Concludo. La nostra lettrice dice che, avanzando nell’età, ha abbandonato certi giovanili atteggiamento di «condanna» di quei cattolici che celebravano i cosiddetti «matrimoni di coscienza» per tanti motivi, tra i quali uno non secondario era quello di salvaguardare la pensione di reversibilità, «ingannando l’Inps». È vero che non sta a noi condannare nessuno, però possiamo e dobbiamo dissociarci da quella prassi e da quel tipo di matrimoni che, più che «di coscienza», sono «di convenienza». Vorrei dunque dire alla nostra lettrice che, condanna a parte, aveva ragione quando era giovane.
Tratto dalla rubrica "Dialoghi con Paolo Ricca" del settimanale Riforma del 25 aprile 2008

Per non dimenticare

Una storia come tante di persecuzione religiosa.

La Federazione delle Chiese Evangeliche della Liguria e del Piemonte meridionale organizza a Favale di Malvaro (GE) un incontro di popolo per ricordare la vicenda della famiglia Cereghino. Si tratta di una testimonianza evangelica che non si vuole dimenticare e viene rievocata perché serva ancora oggi come stimolo per le chiese. Ma cosa successe a questa famiglia?
Nel 1849 nella valle di Fontanabuona presso la borgata di san Vincenzo, comune di Favale, provincia di Chiavari, inizia la singolare storia della famiglia Cereghino, cantastorie girovaghi.I Cereghino erano autori delle parole e della musica che portavano in giro; Andrea, Giovanni e Stefano erano i tre più attivi di questa numerosa famiglia. Per le loro canzoni avevano bisogno di trovare nuovi argomenti per cui a un certo momento sorse in loro l’idea di ispirarsi a qualche passo della Bibbia.Stefano Cereghino, così scrisse: "Nel 1849, in Genova, Cereghino Andrea, per grazia del Signore Iddio, ebbe la santa Bibbia; la portava a Favale, la leggemmo giorno e notte, con molta attenzione. La scintilla divina penetrò nei cuori dei nostri vecchi genitori, dei loro figliuoli e nuore, e dei numerosi nipotini ed altri". Si trattava della Bibbia tradotta dal Diodati.
Quando il parroco di Favale, don Cristoforo Repetto, scoprì che nella casa del Cereghino si leggeva la Bibbia intraprese una lotta senza tregua. Nella Pasqua del 1852, il parroco pretese di non concedere la comunione ai Cereghino, cantori della parrocchia, se prima non avessero consegnato e bruciato la Bibbia. Nello stesso periodo, il parroco si rifiutò di benedire il matrimonio di un Cereghino con una giovane di un paese vicino perché in casa dello sposo si leggeva la Bibbia. Stefano Cereghino, durante uno dei suoi viaggi, si ritrovò a Torre Pellice e durante il culto rimase colpito dalla semplicità e dall'autenticità di quel clima evangelico. Gli fu spiegato che si trattava di una Chiesa evangelica valdese, quindi espresse il desiderio di incontrarsi con il pastore. "Ebbi - dirà poi – un’indimenticabile lezione evangelica".
Avvenuta la rottura definitiva con la Chiesa Cattolica, Stefano Cereghino scrive alla Tavola Valdese per avere indicazioni circa il modo di dare vita a una Chiesa cristiana valdese a Favale. Il 12 novembre 1852 riceve la visita del pastore Geymonat. La cosa indispettisce il parroco che, spalleggiato dal sindaco formula regolare denuncia alle autorità competenti per il reato previsto dal codice penale. I Cereghino sono così accusati di cospirare contro la religione di Stato, cioè contro la Chiesa Cattolica Apostolica Romana. Alla denuncia fa seguito la dura prigionia nel carcere di Chiavari. Agostino fu rinchiuso nella parte più alta, dove faceva più freddo, Andrea nella parte più bassa, dove mancavano lucernaio e ventilazione.
La notizia arrivò alla Camera dei Deputati, dove suscitò il disappunto dei deputati Lorenzo Valerio e del Brofferio, che prendendo la parola dirà: "mentre ho l’onore di parlarvi, oh signori, si istruisce un altro processo di questo genere per alcuni infelici che in Favale tennero discorsi, per quanto si dice, contrari alla religione. Questi sono i fratelli Cereghino, da molti mesi detenuti nel carcere di Chiavari ed appunto quest’oggi viene la dolorosa notizia di un nuovo arresto ... di una giovinetta di non ancora sedici anni per discorsi provocati dalla lettura della Bibbia. Le quali notizie mi fanno chiedere se noi siamo veramente in Piemonte nel 1853 o se, per avventura, non viviamo sotto il Santo Ufficio di Roma nella notte del Medioevo" (Atti del Parlamento Subalpino).
Anni più tardi, ritroveremo a Favale Stefano Cereghino che, dopo i suoi studi per il duplice ministero di evangelista e insegnante a Torre Pellice, fonda con la moglie Caterina Malan, una scuola evangelica a Favale, diurna per i piccoli e serale per gli adulti. Più tardi sorgeranno il cimitero evangelico, ancora oggi esistente, la cappella evangelica e la casa pastorale. L'opera evangelistica di Stefano continuerà fino alla morte. La presenza evangelica a Favale scompare intorno al 1920, quando gli ultimi evangelici emigrano nel nord America.
Nella Chiesa Cattolica del paese è ancora oggi presente una lapide, che ricorda polemicamente la "intrusa valdese eresia".

tratto da www.chiesavaldese.org

mercoledì 16 aprile 2008

Riflettendo sulla sconfitta della sinistra arcobaleno

Posto un commento sulla sconfitta della SA, dopo mesi di vuoto. Una riflessione sofferta, che affonda le sue radici in considerazioni già svolte in questo blog. Il post è seguito da un altro del maggio 2007 nel quale - scusate l'immodestia - credo di aver annusato l'aria che tira....

Calcisticamente, una sconfitta per 1 o 2 a 0 legittima alcuni alibi: l'arbitraggio, la stanchezza per un precedente impegno, le assenze di elementi chiave ecc. Una sconfitta per 8 a 0 non ammette attenuanti di sorta. Tale è la proporzione dello smacco patito da SA. Alcuni fatti sono veri: 1) l'Italia ha una tradizione dal 1948 al 1990 di marca chiaramente bipolare, in virtù della quale due partiti (DC e PCI) assommavano l'80% circa dell'elettorato. Le vecchie abitudini sono dure a morire e l'argomento del "voto utile" ha avuto una sua efficacia; 2) gli elettori hanno percepito SA come un freddo matrimonio d'interesse tra parti politiche assemblatesi per non scomparire; 3) la percezione di una gestione deludente del governo Prodi ha tenuto parte dell'elettorato lontano dalle urne; 4) analogo effetto potrebbe aver avuta l'assenza di falce e martello nel simbolo. Fatte queste opportune premesse, a mio sommesso avviso la sconfitta della SA ha radici ben più profonde di questi eventi contingenti.RC, PdCI e Verdi nonostante l'importanza e la valenza dei temi sostenuti, sono apparsi molto "periferici" rispetto ai temi che gli elettori hanno in agenda. Fiscalità, sicurezza, legalità, federalismo, confronto con l'immigrazione, efficienza della Pubblica Amministrazione sono stati percepiti come temi marginali nel programma di SA. Seppure è vero che su questi temi il PDL ha impostato la sua campagna elettorale, non è vero che non esistano risposte "di sinistra" a quelle che sono sentite come priorità dagli elettori. Il PCI su questi temi aveva idee ben chiare: ma RC e PdCI non sembrano essersi poste su questo binario. I due soggetti politici che si richiamano al comunismo sembrano aver irreversibilmente imboccato la strada di una tradizione della sinistra italiana gloriosa ma minoritaria: quella che dal PSIUP discende sino al PDUP ed a DP. Una tradizione che, in sostanza, non ha mai pesato più delle percentuali conseguite da SA alla Camera ed al Senato. Una tradizione che spesso cade nei manierismi e negli stereotipi di fronte a problemi del vivere quotidiano. Ad esempio: se in una periferia operaia esiste un problema di convivenza con i rom, non credo sia elettoralmente pagante appellarsi ai sacrosanti valori della tolleranza e dell'accoglienza. Occorrerrebbe, semmai, farsi promotori di azioni positive di sostegno per dare dignità ai nomadi, non omettendo di reprimere condotte antisociali, applicando misure preventive e repressive quali espulsioni ecc.Altro esempio: il problema dell'efficienza burocratica. Siamo tutti favorevoli a "meno mercato più stato" (o, al limite, più terzo settore). Posta questa premessa, occorre che la sinistra si faccia strenua promotrice di politiche di efficienza e riqualificazione del settore pubblico, non disdegnando di licenziare in tronco chi scalda la sedia, che esiste, e non è una mitologia partorita dal Prof. Ichino. Si tratta di esempi, ma testimoniano una distanza (vera o percepita che sia) tra programmi ed elettorato.Adesso leggo e sento parlare di un bivio: tra costituente comunista e prosieguo dell'esperienza di SA. Due progetti nobili e degni, ma quali saranno i contenuti? Un radicalismo scollato dalla società e dal territorio oppure un partito ramificato che mutatis mutandis assomigli al vecchio PCI? Abbiamo bisogno di un soggetto che selezioni i "no" da dire: un partito che non rincorra la piazza, ma la riempia e la guidi. Un soggetto con idee chiare su ciò che è "lotta" e ciò che è "governo". Serve un partito con un'agenda che non sia chiusa a nulla: come dicevo innanzi, esiste una risposta sul tema "sicurezza" che sia di sinistra, esistono analisi e valutazioni (Gramsci docet) che spaziano a 360° e si aprono alla società e non si conchiudono in formule stereotipate.Per quanto mi riguarda, non ho preferenze per un progetto: mi interessano i contenuti. Resto alla finestra ed attendo riscontri.
i cani di pavlov
Appartengo, per meditata scelta ideale ed ideologica, all’area che è comunemente denominata sinistra radicale. Tale scelta mi è parsa quasi d’obbligo di fronte ad alcuni dati di fatto sotto gli occhi di tutti, come l’inefficienza delle ricette correnti per la lotta alla povertà interna ed internazionale, la salvaguardia dell’ambiente, la costruzione di un mondo meno litigioso e più pacificato.Tuttavia l’appartenenza non può esimermi, semmai anzi mi obbliga, dal constatare taluni aspetti singolari, spesso di una esasperante meccanicità, di azione – reazione che si riscontra in alcuni (non tutti, sia chiaro) militanti e rappresentanti. Ovvero, ad una situazione data, sovente si risponde in uno ed un solo modo, senza contemplare altre possibilità che non siano in contrasto con i postulati della propria appartenenza ideale.Un esempio eclatante: sappiamo che esiste una certa percentuale della popolazione, che chiameremo per semplicità razzisti, la quale reagisce sfavorevolmente all’ “estraneo”, sia esso proveniente dal comune limitrofo o da Venere. Con questa minoranza non c’è discussione possibile: ciò nondimeno, assimilare a questa minoranza chiunque denunci oggettivi problemi di convivenza e confronto con gli “estranei” è un autogol clamoroso che spesso la sinistra radicale segna. Le parole d’ordine in questi casi sono sempre le stesse: tolleranza, assimilazione, diritti di cittadinanza eccetera. Sacrosante, non vi è dubbio.Ma queste parole d’ordine trascurano l’altro aspetto dell’immigrazione, che è la lacerazione psico culturale che il migrante di prima generazione soffre a lasciare il suo paese. Trascurano un altro aspetto fondamentale, che è quello di arginare le future migrazioni, non per ottuso razzismo, ma per non svuotare di cultura, energie, vitalità i paesi del terzo mondo. Aprire le porte di casa senza preoccuparsi di una seria politica di reinsediamento degli immigrati o di contenimento della migrazione, attraverso progetti mirati che consentano la creazione di imprenditoria, di un tessuto socio economico produttivo nei paesi sempiternamente in via di sviluppo non è radicale: è miope.Un’altra reazione tipicizzata è quella che si innesca di fronte alle critiche al settore pubblico: chiaro che se la critica è all’esistenza della “mano pubblica” tout court non c’è dialogo che tenga.Ma, laddove l’oggetto degli attacchi sia l’inefficienza parassitaria di alcuni settori della burocrazia, inamovibilità dei titolari di impieghi dalle loro posizioni, l’irragionevolezza di alcuni privilegi, allora il radicalismo – a mio sommesso avviso – dovrebbe imporre un durissimo attacco ‘da sinistra’ a determinate situazioni. Richiamarsi agli inalienabili diritti dei lavoratori non ha molta presa su strati operai e, perché no, intellettuali, che magari sotto diversi i profili della profusione del lavoro manuale o di quello intellettuale la sera tornano a casa prostrati dalla fatica. Perciò i dipendenti pubblici, oltre a meritare le tutele da accordare a tutti i lavoratori, dovrebbero rammentare un po’ più spesso di essere al servizio dei cittadini e non viceversa e regolarsi di conseguenza. In mancanza, una politica che sia realmente di sinistra radicale impone l’applicazione di gravi sanzioni, ivi compreso il licenziamento, oltre a legittimare lo scardinamento di varie roccaforti di inerzia parassitaria, ancora esistenti.Un altro tema che fa salivare al suono del campanello la sinistra radicale nostrana è quello del contrasto alla criminalità organizzata. Agire sul versante della prevenzione, sradicando la mala pianta della mafia attraverso la creazione di un tessuto economico efficiente che inglobi i soggetti che costituiscono la manovalanza delle associazioni criminali non è giusto: è sacrosanto. Ma, a questo imprescindibile momento, andrebbe aggiunta – a mio parere – una valorizzazione della repressione. Quando parliamo di manovalanza criminale non dobbiamo avere sotto gli occhi solo ceti sottoproletarizzati, privi di ogni opportunità di sopravvivenza che non sia la mafia, in fervida attesa di opportunità di redenzione. Dobbiamo anche immaginare un vasto strato di popolazione portatore di una sottocultura anti statalista, imperniata di familismo amorale e logiche di clan. A queste persone va spiegato, attraverso l’apparato repressivo, che il nostro clan (lo stato) è più forte e più duro del loro e contro di esso non vi è nulla da fare. Quando lo avranno capito, saranno pronti ad essere riassorbiti dal tessuto economico eccetera eccetera ed essere cittadini produttivi.Gli esempi di salivazione pavloviana della sinistra radicale potrebbero continuare, ma mi fermo qui. Basta comunque sapere che i cani di pavlov non sono mai stati un esempio di intelligenza, semmai l’opposto.Soprattutto, sbavando al suono di campanelli si perdono consensi e aderenza alla realtà.Per vincere non occorre farsi uguali agli altri, per carità. Ma per perdere radicamento sociale è sufficiente lasciare che alcuni temi scottanti facciano parte dell’agenda degli avversari e non della propria e non elaborare sugli stessi alcuna soluzione alternativa a quella proposta dall’antagonista.