martedì 25 dicembre 2007

Il mio Sms di Natale

"Ti auguro un natale con più gioia nel cuore che sulla tavola e più meraviglia per la nascita di Gesù che per i doni sotto l'albero".

A tutti i visitatori del ghiaghia1poliblog augurissimi di buon natale. Aspetto i vostri Sms nei commenti :)

Parole di saggezza

Una riflessione acuta sul socialismo reale ed una molto più banale.

"Quanto è stato impugnato nella Russia sovietica - sia pure con mani sporche e sanguinose - e in un modo che certamente ci disgusta, è però un'idea costruttiva, la ricerca della soluzione di una questione che anche per noi è seria e scottante e che noi, colle nostre mani più pulite non abbiamo ancora saputo impugnare abbastanza energicamente: la questione sociale".
(Karl Barth, febbraio 1949, Conferenza a Berna)
su Karl Barth vedi ad esempio http://it.wikipedia.org/wiki/Karl_Barth
"Comunismo e fascismo hanno lasciato molte sofferenze e macerie laddove hanno governato. Tuttavia in nome del primo milioni di uomini hanno combattuto grandi battaglie per la liberazione dalla schiavitù e per i diritti sociali, che costituiscono un monumento immortale. Il fascismo non ha prodotto nulla di tutto ciò, anche fuori dai confini delle nazioni nelle quali si è imposto con la violenza".
(ghiaghia1, svariate discussioni in chat)

domenica 9 dicembre 2007

Spe salvi: la valutazione di una teologa cattolica e di un teologo protestante.


Una speranza per tutti
di A. M.

Quando esce un’enciclica ognuno di noi nel suo immaginario vorrebbe essere al posto del Papa che l’ha scritta, si interroga su come l’avrebbe impostata, cerca le questioni che rimangono aperte, esprime le sue perplessità e le sue soddisfazioni. Inoltre, ad ogni enciclica, il tema può risultare più o meno simpatico, può trovare approvazione o meno e creare aspettative differenti.
Un’enciclica sulla speranza, parola e status chiave della vita umana, pone sicuramente ogni uomo in ascolto.
Non voglio entrare in merito alla fondatezza dell’enciclica. La prendo come spunto per portare avanti alcune riflessioni sulla speranza e domande che mi si aprono nello sfogliare le pagine. Non voglio che queste righe siano prese come critica o presa di posizione, ma come parole e domande che aprono questioni, interrogativi e che si mettono in ascolto di questo tempo.

La prima domanda è se serviva un’enciclica su quella che è una virtù teologale, ma anche uno stato dell’animo dell’uomo di ogni tempo.
Il Papa parla della speranza come virtù tipicamente cristiana. In effetti nel Nuovo Testamento e negli scritti dei Padri sono numerosi i riferimenti alla speranza.
Però il Papa non rievoca il fatto che la speranza accompagna l’uomo da sempre ed appartanente ad ogni tempo. Penso alla Spes romana ultima dea o alle figure della speranza evocate da Ernst Bloch il Il Principio Speranza, interamente dedicato al tema della speranza e alle sue forme di vissuto. Ernst Bloch associa tutte queste figure alla dimensione religiosa. Forse non va dimenticato questo vivere la speranza tipicamente umano.

La speranza è per tutti. Forse cambia la dimensione della speranza. In chi speriamo? Perché speriamo? Tipico del cristiano è il non sperare invano, è sapere che non è dell’uomo l’ultima parola e nel riporre la propria dimensione di attesa nel Dio di Gesù Cristo che ha vinto la morte.
Ma perché il Papa non ha riportato la dimensione della speranza a quella dimensione del vivere, sentire, stare sulla terra tipicamente umana?
Scorrendo l’Enciclica la speranza è definita come una certezza. Ritornano in me le parole della Lettera agli Ebrei, tra l’altro rievocate dal Papa: “La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono”. La speranza implica un non vedere, un non avere sicurezze, ma il fondare la propria aspettativa proprio in quello che non si vede, non si riconosce. La speranza, come la fede, è compagna del faticare umano, del sentirsi sospesi. Perché parlare di certezza in un’epoca in cui nemmeno la scienza è motivo di certezze dimostrabili?
La speranza apre, ma oltre le certezze, le sicurezze del vivere.
Penso al cammino degli Ebrei per quarant’anni nel deserto verso una Terra Promessa. La speranza è il luogo delle promesse, dei desideri non storicamente realizzati, della Terra Promessa.
E immagine storica prima della speranza è la Risurrezione di Gesù Cristo.

Leggo la digressione del Papa sulla verità dei filsofi: “Il Vangelo porta la verità che i filosofi peregrinanti avevano cercato invano...”. Mi credo e mi piace pensare, da filosofa cristiana, che la Verità del Vangelo è ben altra rispetto alla verità filosofica. Forse si integrano, si incontrano, ma la verità di Cristo va oltre ogni verità filosofica. La Verità di Cristo è verità che parla del Padre all’uomo di sempre.
Così anche mi chiedo se davvero la scienza abbia mai pensato realmente di redimere l’uomo, forse, in un tempo di certezze, ha creduto di semplificare la vita all’uomo, di portare ausili, ma non redenzione, tanto meno lo crede in questo periodo in cui l’uomo si scopre sempre più fragile.
La scienza non dà risposte al cuore dell’uomo.

Non ho mai amato l’illuminismo, tanto meno il relativismo che non prende posizione, ma mi domando, leggendo la Spe Salvi, perché scagliarsi contro… e perché scagliarsi contro il marxismo, ideologia di un tempo passato. Forse ora, in questo tempo, sono altri i ‘fondamentalismi’ e gli ‘integralismi’ che abitano l’uomo…

Poi penso a tutti quei luoghi dove la speranza non passa, perché manca la parola di speranza. Che risposte dà l’enciclica a questi spazi? Spesso la mancanza di speranza non dà la forza di pregare e tanto meno di tollerare dolore e sofferenza, vista di un oltre. Penso a tutti quegli spazi di vita, antri chiusi, dove la speranza non arriva perchè noi cristiani non sappiamo metterci parola, abbiamo paura ad accedervi... e questo è il mio primo tarlo.

Dio, alla fine, passa e passa comunque in ogni territorio! Forse questo dovrebbe essere il primo messaggio di un’enciclica sulla speranza alla fine del 2007.

Un'enciclica distante dalla modernita'
di Daniele Garrone, decano della Facoltà valdese di teologia

Anche la seconda enciclica di papa Benedetto XVI è una riflessione teologica, ricca di richiami non formali alle Scritture, su un aspetto centrale della fede cristiana. Questo è un bel segno, in un tempo in cui la presenza delle gerarchie cattoliche, in Italia come nel mondo, appare sempre più legata a questioni morali, con interventi tesi ad influenzare le decisioni in materia di etica pubblica, a tutelare condizioni privilegiarie, a controbattere le voci che, nella chiesa romana, intendono il Concilio Vaticano II come l’avvio di un processo di rinnovamento.
Fa bene il papa a rispiegare l’essenziale del messaggio evangelico; il ritorno alle fonti, cioè un rinnovato ascolto della testimonianza delle Scritture è l’unica cosa che può impedire alla chiesa di scambiare qualcos’altro (mondano o religioso che sia) per la speranza di Cristo. Così questa enciclica non manca di affermazioni che si possono condividere e fare proprie, come richiamo alla Parola di Dio, convinti come siamo che il compito ecumenico più urgente sia tornare insieme a scuola di cristianesimo, mettendoci a nudo davanti a Dio e alla sua Parola.
E tuttavia non posso tacere alcuni interrogativi e critiche di fondo. Non mi riferisco a punti di ovvia divergenza dottrinale: ai n. 47 e 48 il papa ripropone, certo in maniera moderata, la dottrina del purgatorio e la pratica del suffragio per i defunti, che a nostro avviso non hanno alcun fondamento biblico e quindi neppure alcuna legittimità teologica. Qui le chiese protestanti non possono che ripetere con Lutero: "Il purgatorio è contro l’articolo fondamentale, secondo cui solo Cristo, e non alcuna opera umana, può aiutare le anime" (WA 40, 205). Ai nn. 49 e 50 il papa chiude la sua enciclica con una preghiera a Maria, "stella del mare", alla quale ovviamente non possiamo associare la nostra richiesta di guida sul cammino della speranza, cosa che avremmo fatto toto corde se essa fosse stata indirizzata a chi solo può accoglierla, cioè a Dio in Cristo.
Mi riferisco invece ad alcuni temi sui quali sarebbe necessaria una testimonianza ecumenica che sia al tempo stesso un "render ragione della speranza che è in noi" e un responsabile fare i conti con ciò che di questa speranza abbiamo fatto nella storia.E qui c’è il primo problema. Come di consueto, per il papa le cose sono andate bene da Gesù (addirittura dalla cacciata dal paradiso terrestre, n. 17) fino ai tempi moderni. In essi, la fede è stata ridotta a fatto privato ed è così divenuta "in qualche modo irrilevante per il mondo"; Lutero ha ridotto la speranza da "sostanza" ad "atteggiamento interiore"; Bacone ha diffuso la fede in un regno dell’uomo basato sulla scienza, che però non può redimere, e di lì si è sviluppato il mito del progresso; Kant ha opposto la "fede razionale" alla "fede ecclesiastica"; Marx ha voluto sviluppare una politica "pensata scientificamente", tesa al "cambiamento di tutte le cose", ma "in modo unilaterale" e, soprattutto, "materialistico". Anziché liquidare tutto questo travaglio moderno con la frase "è necessaria un’autocritica dell’età moderna", il teologo cristiano dovrebbe chiedersi se le correnti di pensiero appena menzionate non abbiano contribuito a mettere in luce l’infedeltà della cristianità trionfante, che ha pensato più al potere (in primo luogo spirituale ed ideologico) della chiesa e degli ecclesiastici che a diffondere la speranza e alimentare la formazione di coscienze liberate; che si è poco occupata di giustizia nel mondo, come invece esige la Scrittura, Antico e Nuovo Testamento; che ha tacitato l’esigenza legittima di un "mondo migliore" in nome di un al di là; che ha combattuto la scienza che invece, biblicamente, può essere vista come vocazione che Dio rivolge all’umanità creata "a sua immagine" ed incaricata del dominium terrae.
Il papa parla, vero, anche di una autocritica "del cristianesimo" (n. 22), ma si tratta di quello "moderno"! Cioè, di quel cristianesimo che ha ripensato se stesso prendendo sul serio gli interrogativi di cui sopra. Questo cristianesimo, che nella chiesa del papa vuol dire una certa teologia "conciliare", deve fare autocritica. Chi ha alle spalle il secolo XX, e non ha né rimosso né idealizza il regime di cristianità, le "auto-critiche" richieste ad altri da chi sta in alto non possono che apparire sospette. Al n. 37 il papa ricorda la speranza incrollabile del martire vietnamita Paolo Le-Bao-Tin (+ 1857), "prigioniero per il nome di Cristo" e ci propone una autentica testimonianza. L’Europa, però, è imbevuta del sangue di martiri, per lo più cristiani, morti non per Bacone o Kant o Marx, né torturati ed uccisi da adepti delle idee moderne di un regno di dio secolarizzato sulla terra, ma vittime di una cristianità vincente nella sua pretesa di organizzare il mondo con la Verità che essa detiene. La sfida della speranza implica che si rilegga noi per primi, senza sconti, la nostra storia alla luce del giudizio di Dio. Il problema, invece, sembra essere solo che i moderni non credono più al giudizio universale. Che cosa ha fatto di disperante lo stalinismo che non si fosse già visto nell’Europa cristiana, in nome del crocifisso però?
Inoltre non credo proprio che la tentazione più diffusa oggi tra i cristiani e tra gli uomini e le donne del nostro tempo, siano i miti del progresso e l’illusione di un regno di Dio qui ed ora. Vedo piuttosto scoraggiamento, confusione, solitudine, rassegnazione, dubbi, evasione, assenza di prospettive, stanchezza. Qual è la parola che noi riceviamo dall’Evangelo in questa situazione? Questa mi sembra la domanda che attanaglia il testimone cristiano. Per non parlare poi del fatto che la protesta contro l’infeudamento del moderno cristianesimo ai miti del progresso è già risuonata forte e chiara a partire dagli anni ’20 del secolo scorso, ad opera di uno sparuto gruppo di cristiani protestanti (Karl Barth), nell’indifferenza della loro chiesa asservita al nazionalsocialismo e mentre il papa di Roma firmava concordati con Mussolini e Hitler. Eppure per Benedetto XVI il vero problema è la modernità.
L’obiettivo polemico (la modernità e il cristianesimo moderno) ha guidato Benedetto XVI in tutta l’enciclica, e così non appaiono valorizzati testi e contesti biblici che avrebbero dato un’altra impronta al discorso e avrebbero permesso di accogliere serenamente gli interrogativi che attraversano la coscienza attuale, anche cristiana. Secondo il papa, "l’ateismo moderno è … un moralismo: una protesta contro le ingiustizie del mondo e della storia universale" (n. 42). Ma la protesta, coram Deo!, contro l’ingiustizia è una dimensione fondamentale nelle Scritture, da Giobbe all’Apocalisse, passando per molti salmi e profeti. Se Gesù riprende in croce il grido di Israele ("Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato", Salmo 22), il discorso cristiano sulla sofferenza non può risolversi nell’invito a trovare un senso anche in essa. Se nel Nuovo Testamento i discorsi sul Regno di Dio e sul "frattempo" tra la prima venuta di Cristo e il suo ritorno sono, come sono, articolati e per certi versi contraddittori, ciò andrebbe messo alla base di una riflessione sulla speranza, mostrando che la speranza è una scoperta nelle contraddizioni.
Infine una parola su Lutero. In una bella formulazione, al n. 2, il papa afferma: "il messaggio cristiano non era solo «informativo», ma «performativo». Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita." Non siamo lontani dalla scoperta di Lutero: l’Evangelo come parola di Dio che promette, dona, salva. La Riforma, dal XVI secolo, in fondo, non ha voluto dire altro che questo: la Parola è "efficace", dona realmente la realtà che annuncia. Poche pagine dopo, però, Lutero viene liquidato come qualcuno che avrebbe ridotto la speranza ad atteggiamento interiore anziché riconoscerla come "realtà presente in noi". Peccato, un’(altra) occasione mancata per ascoltare oggi chi si è respinto allora, per non prenderlo sul serio come testimone cristiano e farne solo uno dei primi "moderni", che oggi devono fare autocritica.
Tratto da NEV - Notizie evangeliche del 5 dicembre 2007

giovedì 29 novembre 2007

La notorietà del male

La citatissima frase di Andy Warhol (in futuro ognuno sarà famoso per quindici minuti) forse non profetizzava per quale via si sarebbe divenuti famosi in un futuro che oggi è il presente.
Non era sufficiente la notorietà che i reality show donano ad alcune braccia rubate all'agricoltura o alla manovalanza edile: adesso si diventa noti (e, per corollario, ricchi ed idolatrati) anche se si è sospettati o condannati per aver ucciso qualcuno.
E' il caso, attualmente, di Marco Ahmetovic, il giovane di etnia rom condannato a sei anni e mezzo di reclusione (attualmente scontati agli arresti domiciliari) per aver ucciso quattro giovani nelle Marche guidando ubriaco un furgone. Con l'ausilio di un promoter pubblicitario, Ahmetovic sarebbe divenuto testimonial di una presunta Linea rom di vestiti ed accessori.
Non conosco i prodotti griffati e promossi dal condannato né gli introiti che questo ha realizzato (anche se si parla di un contratto che prevede un compenso di € 300.000).
Tuttavia mi sorge spontanea una meditazione. Vivo in un contesto nel quale guidare tranquillamente è un'utopia, assediati come si è da scooteristi, i quali ti si parano dinanzi con la disinvolta impunità di chi è al sicuro all'interno di un TIR, senza valutare l'instabile fragilità delle due ruote, che dovrebbe indurre alla prudenza.
Ebbene: con un atteggiamento cauto e prudente nei confronti di questi imbecilli, ho evitato che decine di persone si facessero male, anche se lo avrebbero meritato per la loro condotta ai limiti del criminale.
Ora, se Ahmetovic è divenuto testimonial dopo aver commesso una strage al volante, qual'è il compenso per me per aver salvato (e per salvare ogni giorno) vite umane?
Attendo una risposta a stretto giro, altrimenti deporrò ogni scrupolo ed investirò chi merita di essere investito, ucciderò chi merita di essere ucciso e renderò paraplegico chi cerca ogni giorno di finire sulla sedia a rotelle. Poi narrerò il mio stress e la mia lacerazione emotiva di fronte alla protervia ed arroganza delle mie vittime e diventerò famoso. La ricchezza di certo seguirà alla fama.
Perciò attenti, voialtri: c'è un nuovo sceriffo in città che non lascerà impunite le vostre infamie a bordo dello scooter.

domenica 18 novembre 2007

Considerazioni sulla violenza ultras

Una riflessione pubblicata dopo sette giorni dalle tragiche note vicende del nostro calcio.


Che l’Italia sia un paese – nel suo intimo – profondamente fascista è risaputo, dopo le numerose contro prove che ha dato negli anni successivi all’infausto ventennio.
Se si cercava un’ennesima manifestazione di questa disposizione d’animo fascistofila, la si è avuta all’indomani della tragica morte del tifoso laziale Gabriele Sandri.
Decine e decine di facinorosi si sono presi il lusso di assaltare istituzioni, mentre il coro delle prefiche dei garantisti pelosi salmodiava che no, non si può criminalizzare un intero movimento, un’intera curva o il mondo degli ultras senza fare degli opportuni distinguo. Sbagliato? No, per carità: giusto, ma fazioso e strumentale. Giusto perché la responsabilità penale, nei sistemi giuridici civili, è individuale. Fazioso e strumentale perché è arci noto anche a chi non vuol vedere le croci celtiche o sentire i cori inneggianti a Mussolini, che il mondo ultrà (fatte salve le eccezioni del caso) conosce solo due sfumature politiche : destra ed estrema destra.
Fazioso e strumentale perché le nostre prefiche - quando i “facinorosi” sono i no global - invocano il pugno duro senza se e senza ma, senza troppi distinguo, senza discettare sulla rabbia e sul dolore che ha animato i facinorosi. Oppure come dimenticare la vergognosa criminalizzazione in blocco dei rumeni e dei rom (che non sono neppure la stessa cosa) dopo il tragico assassinio di Giovanna Reggiani? Dov’erano i garantisti in quel caso, che fine avevano fatto gli assertori dell’individualità della responsabilità penale?
Forse sarò anch’io fazioso e strumentale: eppure mi pare che ci sia più legittimazione (ma mai giustificazione) a sfasciare tutto per la rabbia che un osceno sistema di disuguaglianze e di alienazione è in grado di scatenare, piuttosto che per il diverso colore della maglia avversaria. Non posso fare a meno di pensare che chi uccide perché vive in una baraccopoli sub umana in una delle più grandi metropoli occidentali sia più giustificabile di chi assassina un poliziotto durante tafferugli tra tifoserie.
Per favore, cari (si fa per dire) fascistelli di casa nostra: lasciate stare la memoria di un povero giovane la prossima volta che avrete la voglia di far prove tecniche di marcia su Roma. Queste giustificazioni incantano i gonzi o i cripto fascisti in mala fede: a me fanno solo venir la voglia di criminalizzare in blocco e rinverdiscono voglie di campi di rieducazione che, peraltro, non m’appartengono.

martedì 30 ottobre 2007

Una denuncia dei massacri religiosi nella settimana della Riforma

Sonetto del poeta inglese John Milton scritto in occasione del massacro dei valdesi nella «primavera di sangue» del 1655

Vendica, o Dio, dei massacrati santi
l'ossa sparse per i freddi alpini chiostri,
quei che al tuo vero furon vigilanti
quando i sassi adoravan gli avi nostri.
Segna nel libro con eterni inchiostri
delle tue pecorelle uccise i pianti,
che al prisco ovil rapìan sabaudi mostri
gittando dalle rupi madri e infanti.
Valli a monti iteraro il loro affanno,
e i monti al cielo. Il sangue e il cener loro
semina, ovunque il triplice tiranno
impera, e a cento a cento di costoro
escan che, apprese le tue vie, dal danno
di Babilonia trovino ristoro.
(Traduzione di Mario Praz)
Versi originali in inglese:
On the late Massacher in Piedmont

Avenge O Lord thy slaughter'd Saints, whose bones
Lie scatter'd on the Alpine mountains cold;
E'en them, who kept thy truth so pure of old,
When all our fathers worshipped stocks and stones.
Forget not: in thy book record their groans,
Who where thy sheep, and in their ancient fold
Slain by the bloody Piedmontese, that roll'dMother
with infant down the rocks. Their moans
The vales redoubled to the hills, and they,To heaven.
Their martyred blood and ashes sow
O'er all the Italian fields, where still doth sway
The triple tyrant; that from these may growan hundred-fold, who,
having learnt thy wayEarly may fly the Babylonian woe!

venerdì 26 ottobre 2007

Perchè ha ancora senso dirsi anti fascisti

Pubblico senza sostanziali ritocchi il racconto inviatomi da un carissimo amico di un'aggressione patita da fascisti dopo la manifestazione dello scorso 20 ottobre. Ritengo che non possa essere confinata al rango di intemperanza di scalmanati, ma debba far riflettere sulla ritrovata arroganza di alcuni che - grazie alle scelte dissennate della destra "parlamentare" - sentono aria di prossime elezioni, di alleanza con il Polo e di anticamere di ministeri che li monderanno dai peccati.

Eravamo dalle 4 di mattina alla stazione di Genova Brignole, di ritorno da Roma, aspettando il treno delle 6.22 per Busalla, quando siamo entrati a prendere due panini, eravamo i soli manifestanti rimasti.
Fuori compare un gruppetto di 7 8 persone cantanti "facetta nera" e irridendo alla bandiera rossa e all'internazionale.
Erano mascherati, alcuni da ultras sampdoriani.
Ho preso la bandiera ( arrotolata) dalle mani di mio figlio e l'ho portata dentro il bar, e invitato uno dei tipi a prendere il caffè.
In tutta risposta mi hanno minacciato di riempirmi di sberle. A quel punto mio figlio si è messo in mezzo, dicendo che ero invalido e che mi avrebbero fatto molto male. Per risposta, prende una testata che gli fa entrare il piercing nella gengiva e lo scaraventa a terra, facendogli perdere i sensi.
Il gruppo gli si avventa contro, e uno minaccia di strappargli l'orecchino. Riceve una sberla mentre si alza sangunante, semi svenuto dalla capocciata. Io mi frappongo gridando che è minorenne ( non è vero..). A quel punto i fascisti se ne vanno intimando a noi di non passare più di lì, a Brignole. Una delle due più importanti stazioni di Genova.

Come commentare? Forse non ci sono parole.
Quelle che trovo le ho già scritte al mio amico. Eccole qui di seguito.

Caro E.,
con sconcerto e ribrezzo apprendo della vile aggressione fascista a Te e Tuo figlio.
Per quanto poco io possa, Ti sono vicino, come parte lesa e come genitore.
Se Tu mi autorizzi, vorrei postare la Tua testimonianza sul mio blog, depurata ovviamente di nomi. Sarebbe un piccolissimo gesto per dire che il fascismo è, purtroppo, vivo e vitale e va combattuto e non sottovalutato.
Ci prepariamo ad un avvenire in cui i fascisti "duri e puri" saranno chiamati dal Cav. nuovamente a far parte dell'area di governo.
A questa normalizzazione dobbiamo opporci con tutti i nostri mezzi, parlando anche a quel poco di popolo di destra che non vuol supinamente accettare il ritorno del fascismo, dopo l'infausto sdoganamento di AN.
Ti abbraccio di cuore

giovedì 27 settembre 2007

GHIAGHIA1 FA NOMI E COGNOMI!!!

Ho deciso: basta reticenze, farò nomi e cognomi.
Protagonisti della cronaca passata e recente catturati con i loro "veri" nomi ed una spiegazione sulla loro origine.
Un servizio pubblico offerto da ghiaghia1 ai lettori di questo blog.

Inclemente Masturbella: Ministro di (dis)Grazia e d'(in)Giustizia sostiene di essere arrivato vergine al matrimonio, celebrato alla non verde età di 28 anni. Il nome dice come il nostro eroe ha preservato la sua illibatezza.

Sergio Ricottucci: immobiliarista romano (anzi, di Zagarolo) arricchito ma rimasto cafone e di gusti ricottari (per i non napoletani letteralmente significa da sfruttatore della prostituzione, ma per traslato designa un gusto decisamente infimo, chiassoso e pacchiano).

Anna Falqui: attrice, degna moglie di Ricottucci. Perchè Falqui? Ma l'avete mai vista recitare? Le vostre viscere non hanno mai avuto un benefico sommovimento lassativo?

Silvio Berluscloni: dove è possibile trovare un leader che vuole i suoi fedeli seguaci tutti uguali a Lui stesso nei pensieri e nelle parole? Ma ad Arcore, ovvio! Dalle mise berluscloniane, al pensiero unico del leader baximo, i berluscloni riescono a far risaltare i pregi del loro idolo: infatti sono peggio di lui....

Romano Brodi: ogni leader avrebbe l'ambizione di essere caldo, familiare e rassicurante. Tale ambizione la nutre anche Brodi il quale - ingiustamente paragonato ad una saporita mortadella - in realtà ha molto più del brodino sciapo ed insapore dei disastrati ospedali italiani. Altro che mortadelle o insaccati....

Tommaso Padova Scoppia e Vincenzo Fisco: i Bibì e Bibò dell'economia italiana. Il primo esprime la crisi dell'operoso nord est, stretto tra eccessiva imposizione fiscale e mancanza di competitività. Il secondo, invece, è l'incubo di ogni italiano. Ah, dimenticavo: per Padova Scoppia Fisco è bello.....

State tranquilli: altri nomi e cognomi arriveranno. Ma attenzione: il prossimo potrebbe essere il vostro.... :D

martedì 25 settembre 2007

Lettera aperta al Presidente Napolitano

Caro Presidente,
mi rivolgo a Lei con la reverente familiarità che deriva dal sentirLa simbolo vivente della nostra unità nazionale e degli alti valori costituzionali oggi, a mio parere, troppo ed inutilmente messi in discussione.
Il motivo per cui mi rivolgo a Lei è presto detto: la presentazione (semmai ne avesse bisogno) di una persona degna di sedere tra i Senatori a vita della Repubblica.
È indubbia, a mio avviso, l’importanza che “cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” (art. 59 della Costituzione) siano chiamati a dare la loro testimonianza di vita e di politica al Senato della Repubblica.
Ebbene, sommessamente mi permetto di formularLe un mio personale suggerimento, per quando Ella designerà un nuovo Senatore a vita.
Si tratta del pastore valdese in emeritazione Giorgio Bouchard, già Moderatore della Tavola Valdese e Presidente della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI).
Ho avuto l’occasione di conoscere il pastore Bouchard intorno al 2000, quando questi partecipò ad un convegno indetto dall’Associazione Libera di don Luigi Ciotti.
A quell’incontro, insieme a lui, presenziarono anche Sergio Cofferati e Rossana Rossanda, due nomi storici della sinistra italiana ed europea.
Giorgio Bouchard, benché oggettivamente meno noto degli altri relatori, conquistò tutti per intelligenza, simpatia, arguzia e chiarezza: alla fine della conferenza forse qualcuno decise di approfondire le proprie conoscenze sui valdesi e su di lui.
I valdesi, come Lei ben sa, sono un piccolo popolo che ha combattuto per la sua autonomia ed indipendenza religiosa, pagando spesso prezzi altissimi, senza rinchiudersi in un ghetto dorato, ma anelando ad una piena integrazione con il Regno di Piemonte prima, quello d’Italia poi.
Benché minoranza, esprimono da sempre con coerente convinzione una fede cristiana in prima linea per l’affermazione dei valori ecumenici, della separazione tra Chiese e Stato, dei diritti dell’individuo.
Tutte le battaglie civili, a partire dalla Resistenza, sino ai nostri giorni, passando attraverso i referendum su divorzio ed aborto, hanno visto la presenza dei valdesi.
Spesso in prima linea vi era (e vi è) Giorgio Bouchard. Dapprima come Pastore, poi come Moderatore della Tavola Valdese, dipoi come Presidente della FCEI, Bouchard è sempre stato presente in quei processi di integrazione dell’Italia all’Europa della cultura protestante e non solo: basti ricordare solo i suoi contributi culturali di saggistica, la sua attiva presenza nei processi che portarono alla stipulazione delle Intese tra Chiesa valdese e Stato Italiano nel 1984, la sua instancabile attività di amministratore di opere sociali e diaconali della Chiesa Valdese.
Nel primo scorcio degli anni ’90 Giorgio Bouchard è stato Pastore della Chiesa Valdese di Napoli di via dei Cimbri: proprio a Napoli - la Sua città che Ella ha tanto dimostrato di amare - per sua espressa ammissione il Pastore Bouchard ha lasciato il cuore, contandovi tuttora tanti amici.
Per Napoli ed il Meridione Bouchard è tuttora attivo nell’associazione Libera, per la legalità e contro tutte le mafie.
Caro Presidente, non posso non caldeggiarLe, umilmente, la nomina a Senatore a vita di un cittadino che tanto lustro ha dato alla nostra Patria nella sua cinquantennale attività di predicatore, intellettuale, dirigente ed amministratore ecclesiale.
A centocinquantanove anni dalle Lettere Patenti di Carlo Alberto, con le quali veniva concessa l’emancipazione ai sudditi valdesi, a ventitre anni dalle Intese, a cinquantanove anni dall’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italiana, quale miglior modo per celebrare la piena integrazione nel tessuto patrio di una componente minoritaria ma così importante nella nostra storia?
Sono certo che Giorgio Bouchard al Senato potrebbe degnamente rappresentare la Nazione: Lei, Presidente, certamente ricorderà il significativo contributo di Tullio Vinay, fondatore del centro ecumenico Agape e Giusto dei Popoli, al Senato dal 1976 al 1979. Il mio personale augurio è quello che il Senatore a vita Bouchard possa ripercorrere il cammino del suo illustre predecessore.
Le auguro di espletare come ora, nel miglior modo possibile, il prosieguo del Suo mandato.
Suo affezionatissimo
ghiaghia1

martedì 11 settembre 2007

11.09.1973 - 11.09.2007 - In ricordo di Salvador Allende

So di essere in controtendenza.
Eppure, se mi chiedessero un modello di vita tra Che Guevara ed Allende, senza dubbio risponderei Allende.
Di certo perchè non sono bello e di sinistra come il Che; di certo perchè non posseggo quel coraggio convulso che mi spingerebbe ad andare in Bolivia o altrove a fomentare una rivoluzione. Tuttavia credo che, messo alle strette da un vile tradimento, anch'io reagirei come Allende, un uomo che nessuno avrebbe immaginato con un mitra in mano.
Signor Presidente, la storia e Dio puniranno i vili ed i traditori. Tu continuerai ad illuminarci con l'esempio della Tua pulizia morale e del Tuo coraggio.
Oggi riposi in pace, ma vivi nel cuore di chi ama la giustizia.

martedì 4 settembre 2007

sante, anzi laiche parole

La frase che segue è della sociologa Chiara Saraceno ed è tratta dall'articolo pubblicato su La Stampa dell'08.02.2007, alla pagina 35, intitolato "Il matrimonio non è l'unico legame". Ritengo opportuno evidenziarla in maiuscolo e con il colore ai visitatori di questo blog, perchè la condivo appieno.

PRENDO ATTO CHE CHI CRITICA IL FONDAMENTALISMO DI ALTRE RELIGIONI E LA SUA PRETESA DI REGOLARE PER VIA LEGALE LE SCELTE DI CHI NON NE CONDIVIDE I VALORI E LE NORME NON E' ALTRETTANTO ATTENTO AL PROPRIO. ED E' DISPOSTO AD INSTAURARE UNA SORTA DI STATO CONFESSIONALE NEL NOSTRO PAESE, QUANDO SI TRATTA DI QUESTIONI CHE HANNO A CHE FARE CON I RAPPORTI DI AFFETTO, SESSO, SOLIDARIETA' TRA LE PERSONE.

I volti dell'odio

Nel luglio 2006, sotto la spinta emotiva dei conflitti in atto e della reazione dell'opinione pubblica, scrivevo questo post, preceduto dell'avvertenza di cui in seguito, che senz'altro rinnovo. "Non tutto quello che leggerete qui di seguito va preso alla lettera, ma il paradosso che espongo, come tutti i paradossi, contiene un fondo di verità, credo.... Mi auguro che vi siano commenti su questo post e si apra un piccolo dibattito".


Non vi è alcun dubbio che il mostro ideologico del secolo trascorso sia stato l’antisemitismo. A tale giudizio si perviene pacificamente se si rammenta che l’antisemitismo ha generato quella manifestazione del male assoluto che si chiama lager. Oggi di antisemiti DOC, uguali negli argomenti, nei sentimenti e nell’ispirazione ideologica a quelli che furono, ce ne sono pochi. Sempre troppi, ma meno che in passato. Auschwitz non si è manifestata invano ed il pregiudizio irrazionale anti qualcosa degli esseri umani ha assunto una nuova veste. Oggi la pulsione dell’uomo all’odio del diverso, dell’altro da sè, del nemico della civiltà sta assumendo un nuovo aspetto. Un odio in sintonia con i tempi, con radici razionalizzanti, argomenti fondati in parte sulla realtà e sull’attualità, rafforzatisi dopo la tragedia immane dell’11 settembre. Per uno di quegli scherzi tragici della storia e della psicologia collettiva, se si dovesse dare un nome a quelli che, nelle condizioni ideologiche e culturali giuste sarebbero stati anti semiti, ed oggi sono anti altro, la definizione più acconcia potrebbe essere quella di pro semiti. I pro semiti non hanno pregiudizi anti ebraici: in compenso hanno tutti gli altri. Sono anti meridionali, se settentrionali (o viceversa), anti immigrati, anti gay, anti europei, ma soprattutto anti musulmani. L’unica loro passione è Israele, vista come un baluardo anti arabo e anti musulmano, novella Vienna da difendere ad ogni costo senza se e senza ma. Il pro semita non fa differenze: l’unico arabo buono è quello morto. Un bambino musulmano equivale ad un pericoloso integralista e si gioisce per la morte di entrambi o, quanto meno, si resta indifferenti per il bambino. La società araba non ha sfumature, zone grigie, aree di borghesia illuminata, ma è composta solo da Ahmadinejad ed affini. L’altra passione del pro semita sono gli USA: ma non gli USA di cui potrebbero far parte (citando a caso) Vonnegut, King, Noam Chomsky, Rifkin, Abbie Hoffman, Bob Dylan, le mamme coraggio contro la guerra in Irak. Il pro semita identifica gli USA con l’establishment di Bush e della Casa Bianca e chiunque li contesta è anti americano. Sia chiaro: Israele e l’ebraismo non c’entrano nulla con il pro semitismo. Israele e l’ebraismo esistono a prescindere da questa nuova maschera dell’odio irrazionale verso il diverso e non se ne nutrono affatto. Anzi credo che ogni ebreo che si soffermi a razionalizzare sul consenso che proviene da questi soggetti alla sua fede ed allo stato nato dal movimento sionista non possa che paventarne l’esistenza e preoccuparsi di questi “amici” interessati. Tragico volto quello del pregiudizio che rovescia se stesso, eleva l’oggetto dell’odio di padri, nonni e bisnonni ad oggetto di culto. Una maschera nuova, ma non meno pericola, di un pregiudizio pervasivo e totalizzante.

Forza Italia??

Questa riflessione, risalente al luglio 2006 e pubblicata nel mio precedente blog, assume nuova attualità dopo l'avvio della discussione sul partito unico dei moderati.
Forza Italia. Un grido di tifoso, un nome di un partito.Non mi è mai piaciuto questo nome; ne ho istintivamente diffidato sin dall'inizio. Tra l'altro ha tolto al 50% del paese il piacere di incitare in questo modo la nazionale. Il nome dice molto: individua una persona, un oggetto o un'associazione o che, ma spesso dice tanto (se non tutto) sulle qualità e sui contenuti. Ora "Forza Italia" a me dice una cosa fondamentale. Mi dice che questo gruppo di illuminati agisce esclusivamente per il bene dell'Italia e null'altro. Ma se esiste chi fa il bene del paese ed ha a cuore solo quello, allora a che servono gli altri partiti?Gli altri possono anche scomparire. Hanno una visione limitata e parziale dell'interesse italiano. Mi rendo conto di aver formulato un esempio; in questo caso si tende a drammatizzare e semplificare. Tuttavia la nota stonata si avverte nel nome di questo partito; una malcelata vocazione paternalistico - totalitaria insita nella stessa denominazione.In questo quadro allora la condotta del suo leader di delegittimazione storica e demonizzazione dell'avversario è perfettamente coerente. Ben venga, allora, un partito unico dei moderati: ma che sia "partito", quindi parte in mezzo ad altre, che non pretenda d'essere unica depositaria del bene. Allora forse cesseranno le delegittimazioni, ahimè spesso reciproche, e le vocazioni paternalistico - totalitarie lasceranno il passo ad una visione più conforme alla democrazia, che vede due progetti antagonisti per il paese, ma entrambi aventi diritto di cittadinanza.

venerdì 31 agosto 2007

Un Magic bullet ci salverà

Dopo il new deal, la nuova frontiera e la grande società l’utopia d’oggi si chiama magic bullet?


Migliorare la qualità della propria vita è un obiettivo che – consapevolmente o meno – tutti perseguiamo, sovente a caro prezzo. Si pensi solo al flusso di denaro che ruota intorno alla psicoterapia, agli ansiolitici, agli antidepressivi, a tutti i farmaci che in generale ci promettono benessere e pace interiore.
Eppure un miglioramento tangibile, effettivo, immediato e, perché no, ad un prezzo tutto sommato economico, ci viene fatto balenare tutti i giorni ed a tutte le ore dalla TV. Non mi riferisco ai programmi che trattano di salute e medicina oppure a fiction e serial che propongono modelli sovente irraggiungibili bensì, molto prosaicamente alle televendite made in USA.
Avete presente quelle bellissime televendite che hanno ad oggetto la qualunque, dall’ago al missile, doppiate in italiano con accenti entusiastici, nelle quali sono presenti spesso una coppia di tele venditori che, invece di magnificare passivamente il prodotto come Mike con il prosciutto Rovagnati® (mai che il nostro abbia consumato con fauci avide, sotto l’occhio delle telecamere, un bell’amposto di formaggio e gran biscotto…..), con le loro mani esperte utilizzano l'oggetto di cui propongono la vendita, dimostrandone i benefici effetti sulla nostra vita?
Coltelli, frullatori, guaine snellenti, leva peli magiche, spazzoloni, taglia verdure, articoli per make up, attrezzi speciali in grado di aiutarti nell’edificazione o nella pulizia della casa dei tuoi sogni: nessuna categoria merceologica sfugge agli imbonitori a stelle e strisce.
Al di là di ogni discorso sull’utilità o meno degli articoli proposti, queste televendite meritano un plauso incondizionato: hanno l’indiscutibile capacità di trasmettere al pubblico quel senso di inadeguatezza che deriva dal mancato possesso dell’oggetto e l’abilità a far sentire tangibilmente ed immediatamente i benefici che la nostra vita ne avrebbe acquistando l’articolo tele promosso.
Quelli che possono sembrare banalotti trucchi da imbonitore in realtà nascondono uno studio di psicologia popolare (popolare sin che si vuole, ma psicologia…) assai acuto. Se il marketing appare così avanzato per oggetti di pochi soldi (al massimo 50 o 100 €), possiamo ben immaginare quali poderose menti si celino dietro campagne pubblicitarie di grossi brand o di candidati alla Casa Bianca.
Sia detto senza alcun dileggio neppure sottinteso, l’oggetto di turno – grazie ai venditori – riesce a trasmettere quell’ottimismo nell’avanzamento dell’umanità grazie al progresso che è sempre stato uno degli ingredienti dell’american dream che, dopo i durissimi risvegli del delitto Kennedy, degli omicidi razzisti di Martin Luther King e Malcom X, del Vietnam e del Watergate, trova il suo estremo baluardo nelle televendite.
Si capisce, pertanto, come Homer Simpson sia dileggiato da Matt Groenig per la sua voglia compulsiva di comprare gli oggetti più assurdi ed inutili, purché pubblicizzati in Tv oppure come il protagonista del telefilm americano Quell’uragano di papà sia un tele venditore, l’uomo attrezzo, visto nella sua quotidianità lavorativa e familiare.
Il discorso potrebbe continuare ed essere approfondito, ma ora debbo scappare: vado a fare zapping, sperando di riuscire a comprare il leggendario Magic Bullet®, frullatore magico con lo speciale bicchiere a forma di proiettile.

martedì 21 agosto 2007

vacanze lumbard

Impressioni di viaggio e note antropologiche scherzose di un napoletano in vacanza in una enclave lombarda nel sud Italia.

Trascorrere le vacanze fuori casa significa, in qualche modo, confrontarsi con una realtà nuova. Il confronto, poi, è duplice se – oltre a vivere in un contesto estraneo – si condivide uno spazio limitato, seppur ampio, con persone di provenienza assolutamente diversa dalla propria.
Ho passato una settimana intera in un villaggio vacanze di Marina di Camerota (SA) che in realtà è una colonia lombarda in partibus infidelium, ossia in Terronia.
Il villaggio (http://www.blackmarlin.it/), stupendo ed attrezzatissimo, bagnato da uno splendido mare, è caldamente raccomandato ai vacanzieri, anche tardivi.
Il rapporto approssimativo tra lombardi e non era circa di 85 a 15, ossia su cento vacanzieri solo 15 erano non lombardi.
Non è stato facilissimo socializzare, visto che la maggior parte di loro erano arrivati già in gruppo e che io ero impegnato con le mie piccole adorate pesti: solo con i nostri vicini di casa (anzi di casetta) e con una famiglia di Lecco conosciuta in spiaggia siamo andati al di là di poche parole di circostanza.
Ho avuto tuttavia occasione di constatare nell’animo lumbard una tendenza che chiamerei alla “timida trasgressione”.
In poche parole: il villaggio ha una spiaggia liberamente fruibile attrezzata con ombrelloni, ossia chi prima arriva al mare meglio alloggia. La direzione (anch’essa rigorosamente milanese) ha apposto un cartello all’ingresso dell’arenile, con il quale si fa divieto di occupare gli ombrelloni con asciugamani, sedie o altro al solo fine di mantenerli bloccati. Orbene le modalità di sistematica trasgressione di tale regola segnano la differenza tra napoletani e lumbard.
Il lumbard conosce la regola ma la trasgredisce lasciandovi ombrelloni e sedie. Chiaro che, poi, arriva il napoletano screanzato di turno (ossia io) che si è svegliato alle 07.30 per portare presto i bambini al mare e farli giocare sulla battigia e sposta tutto, ammucchiandolo presso un altro ombrellone, che in tal caso dovrebbe diventare conteso da due nuclei di lombardi.
Come reagirebbe un napoletano medio al cospetto di un simile affronto al suo diritto a trasgredire le regole? Il napoletano medio si avvicinerebbe a muso duro all’usurpatore chiedendo spiegazioni su tale inimmaginabile condotta, poi formulerebbe minacce di un male ingiusto e notevole, sproporzionato all’oltraggio patito intimando di liberare l’ombrellone e poi, secondo la differente propensione a delinquere e dopo aver soppesato l’avversario a) cambierebbe ombrellone; b) passerebbe alle vie di fatto.
Il lumbard cosa fa? Si guarda intorno per constatare che si, proprio il suo ombrellone faticosamente ed illegittimamente usurpato è occupato da estranei, poi tace e cambia ombrellone.
Chiaro che la condotta del lombardo è quella che desta meno allarme sociale e non richiede l’intervento della forza pubblica (o di quella privata) ma, se vogliamo, è la più riprovevole. Se il cittadino conosce la regola sarebbe auspicabile che la rispettasse, senza necessità di coazione esterna, ma per autonoma volizione, come ha sempre fatto il napoletano screanzato di turno (ossia sempre io).
Ma se proprio deve violarla non sia femminiello o fighetta (absit iniuria verbis, sia chiaro): almeno si impegni in una virile tenzone per difendere i diritti illegittimamente acquisiti. Sennò fa più bella figura a fare l’educato, specialmente fuori dalla propria terra ed a contatto con i terùn, che lo guardano, lo giudicano e ne scrivono sui blog……..


PS: una parola sull’animazione del villaggio. Bravissimi ragazzi/e, molto discreti e professionali, ma con una piccolissima pecca: quasi tutti del nord, quindi senza quella marcia in più e l’istintiva solarità dei meridionali. D’altronde affidare il divertimento ai lumbard è un controsenso, come mettere in man l’organissasiun ai terùn!!!!!

lunedì 11 giugno 2007

Oggi in Spagna, domani in Italia

In occasione del settantesimo anniversario del vile assassinio di Carlo e Nello Rosselli (09.06.1937), posto sul mio blog lo storico discorso da Radio Barcelona di Carlo Rosselli.
Un esempio di dignità e coraggio politico che invito a leggere e commentare, con la speranza che il pensiero di Rosselli sia oggetto quotidiano di studio ed approfondimento, tanto per la sinistra radicale quanto per quella moderata.

Compagni, fratelli, italiani, ascoltate.
Un volontario italiano vi parla dalla Radio di Barcellona per portarvi il saluto delle migliaia di antifascisti italiani esuli che si battono nelle file dell'armata rivoluzionaria. Una colonna italiana combatte da tre mesi sul fronte di Aragona. Undici morti, venti feriti, la stima dei compagni spagnuoli: ecco la testimonianza del suo sacrificio. Una seconda colonna italiana. formatasi in questi giorni, difende eroicamente Madrid. In tutti i reparti si trovano volontari italiani, uomini che avendo perduto la libertà nella propria terra, cominciano col riconquistarla in Ispagna, fucile alla mano.
Giornalmente arrivano volontari italiani: dalla Francia, dal Belgio, dalla Svizzera, dalle lontane Americhe.
Dovunque sono comunità italiane, si formano comitati per la Spagna proletaria. Anche dall'Italia oppressa partono volontari. Nelle nostre file contiamo a decine i compagni che,a prezzo di mille pericoli, hanno varcato clandestinamente la frontiera. Accanto ai veterani dell'antifascismo lottano i Giovanissimi che hanno abbandonato l'università, la fabbrica e perfino la caserma. Hanno disertato la Guerra borghese per partecipare alla guerra rivoluzionaria. Ascoltate, italiani. E' un volontario italiano che vi parla dalla Radio di Barcellona.
Un secolo fa, l'Italia schiava taceva e fremeva sotto il tallone dell'Austria,del Borbone, dei Savoia,dei preti. Ogni sforzo di liberazione veniva spietatamente represso. Coloro che non erano in prigione, venivano costretti all'esilio. Ma in esilio non rinunciarono alla lotta. Santarosa in Grecia,Garibaldi in America, Mazzini in Inghilterra, Pisacane in Francia, insieme a tanti altri, non potendo più lottare nel paese, lottarono per la libertà degli altri popoli, dimostrando al mondo che gli italiani erano degni di vivere liberi. Da quei sacrifici,da quegli esempi uscì consacrata la causa italiana. Gli italiani riacquistarono fiducia nelle loro forze. Oggi una nuova tirannia, assai più feroce ed umiliante dell'antica, ci opprime. Non è più lo straniero che domina. Siamo noi che ci siamo lasciati mettere il piede sul collo da una minoranza faziosa, che utilizzando tutte le forze del privilegio tiene in ceppi la classe lavoratrice ed il pensiero italiani.
Ogni sforzo sembra vano contro la massiccia armata dittatoriale. Ma noi non perdiamo la fede. Sappiamo che le dittature passano e che i popoli restano. La Spagna ce ne fornisce la palpitante riprova. Nessuno parla più di de Rivera. Nessuna parlerà più domani di Mussolini. E' come nel Risorgimento, nell' epoca più buia, quando quasi nessuno osava sperare, dall'estero vennero l'esempio e l'incitamento, cosi oggi noi siamo convinti che da questo sforzo modesto, ma virile dei volontari italiani, troverà alimento domani una possente volontà di riscatto.
E' con questa speranza segreta che siamo accorsi in Ispagna. 0ggi qui, domani in Italia.
Fratelli, compagni italiani, ascoltate. E' un volontario italiano che vi parla dalla Radio di Barcellona.
Non prestate fede alle notizie bugiarde della stampa fascista, che dipinge i rivoluzionari spagnuoli come orde di pazzi sanguinari alla vigilia della sconfitta. La rivoluzione in Ispagna è trionfante. Penetra ogni giorno di più nel profondo della vita del popolo rinnovando istituiti, raddrizzando secolari ingiustizie. Madrid non è caduta e non cadrà. Quando pareva in procinto di soccombere, una meravigliosa riscossa di popolo arginava l'invasione ed iniziava la controffensiva. Il motto della milizia rivoluzionaria che fino ad ora era "No pasaran" è diventato " Pasaremos",cioè non i fascisti, ma noi, i rivoluzionari, passeremo. La Catalogna, Valencia, tutto il litorale mediterraneo, Bilbao e cento altre città, la zona più ricca, più evoluta e industriosa di Spagna sta solidamente in mano alle forze rivoluzionarie.
Un ordine nuovo è nato, basato sulla libertà e la giustizia sociale. Nelle officine non comanda più il padrone, ma la collettività, attraverso consigli di fabbrica e sindacati. Sui campi non trovate più il salariato costretto ad un estenuante lavoro nell'interesse altrui. Il contadino è padrone della terra che lavora, sotto il controllo dei municipii. Negli uffici, gli impiegati, i tecnici, non obbediscono più a una gerarchia di figli di papà, ma ad una nuova gerarchia fondata sulla capacità e la libera scelta. Obbediscono, o meglio collaborano, perché nella Spagna rivoluzionaria, e soprattutto nella Catalogna libertaria, le più audaci conquiste sociali si fanno rispettando la personalità dell'uomo e l'autonomia dei gruppi umani. Comunismo, si, ma libertario. Socializzazione delle grandi industrie e del grande commercio, ma non statolatria: la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio è concepita come mezzo per liberare l'uomo da tutte le schiavitù. L'esperienza in corso in Ispagna è di straordinario interesse per tutti. Qui, non dittatura, non economia da caserma, non rinnegamento dei valori culturali dell'Occidente, ma conciliazione delle più ardite riforme sociali con la libertà. Non un solo partito che, pretendendosi infallibile, sequestra la rivoluzione su un programma concreto e realista : anarchici, comunisti, socialisti, repubblicani collaborano alla direzione della cosa pubblica,al fronte, nella vita sociale. Quale insegnamento per noi italiani!
Fratelli, compagni italiani, ascoltate. Un volontario italiano vi parla dalla Radio di Barcellona per recarvi il saluto dei volontari italiani. Sull'altra sponda del Mediterraneo un mondo nuovo sta nascendo. E' la riscossa antifascista che si inizia in Occidente. Dalla Spagna guadagnerà l'Europa. Arriverà innanzi tutto in Italia, cosi vicina alla Spagna per lingua, tradizioni, clima, costumi e tiranni. Arriverà perchè la storia non si ferma, il progresso continua, le dittature sono delle parentesi nella vita dei popoli, quasi una sferza per imporre loro, dopo un periodo d' inerzia e di abbandono, di riprendere in in mano il loro destino. Fratelli italiani che vivete nella prigione fascista,io vorrei che voi poteste, per un attimo almeno, tuffarvi nell' atmosfera inebriante in cui vive da mesi,nonostante tutte le difficoltà, questo popolo meraviglioso. Vorrei che poteste andare nelle officine per vedere con quale entusiasmo si produce per i compagni combattenti;vorrei che poteste percorrere le campagne e leggere sul viso dei contadini la fierezza di questa dignità nuova e soprattutto percorrere il fronte e parlare con i militi volontari. Il fascismo,non potendosi fidare dei soldati che passano in blocco alle nostre file, deve ricorrere ai mercenarii di tutti i colori. Invece,le caserme proletarie brulicano di una folla di giovani reclamanti le armi. Vale più un mese di questa vita,spesa per degli ideali umani,che dieci anni di vegetazione e di falsi miraggi imperiali nell'Italia mussoliniana. E neppure crederete alla stampa fascista che dipinge la Catalogna,in maggioranza sindacalista anarchica, in preda al terrore e al disordine. L'anarchismo catalano è un socialismo costruttivo sensibile ai problemi di libertà e di cultura. Ogni giorno esso fornisce prove delle sue qualità realistiche. Le riforme vengono compiute con metodo, senza seguire schemi preconcetti e tenendo sempre in conto l'esperienza. La migliore prova ci è data da Barcellona, dove, nonostante le difficoltà della guerra, la vita continua a svolgersi regolarmente e i servizi pubblici funzionano come e meglio di prima. Italiani che ascoltate la radio di Barcellona attenzione. I volontari italiani combattenti in Ispagna, nell'interesse, per l'ideale di un popolo intero che lotta per la sua libertà, vi chiedono di impedire che il fascismo prosegua nella sua opera criminale a favore di Franco e dei generali faziosi. Tutti i Giorni areoplani forniti dal fascismo italiano e guidati da aviatori mercenari che disonorano il nostro paese, lanciano bombe contro città inermi, straziando donne e bambini. Tutti i giorni, proiettili italiani costruiti con mani italiane, trasportati da navi italiane, lanciati da cannoni italiani cadono nelle trincee dei lavoratori. Franco avrebbe già da tempo fallito, se non fosse stato per il possente aiuto fascista.Quale vergogna per gli italiani sapere che il proprio governo,il governo di un popolo che fu un tempo all'avanguardia delle lotte per la libertà,tenta di assassinare la libertà del popolo spagnolo. Che l'Italia proletaria si risvegli. Che la vergogna cessi. Dalle fabbriche, dai porti italiani non debbono più partire le armi omicide. Dove non sia possibile il boicottaggio aperto, si ricorra al boicottaggio segreto. Il popolo italiano non deve diventare il poliziotto d'Europa. Fratelli, compagni italiani, un volontario italiano vi parla dalla Radio di Barcellona, in nome di migliaia di combattenti italiani.
Qui si combatte, si muore, ma anche si vince per la libertà e l'emancipazione di tutti i popoli. Aiutate, italiani, la rivoluzione spagnuola. Impedite al fascismo di appoggiare i generali faziosi e fascisti. Raccogliete denari.E se per persecuzioni ripetute o per difficoltà insormontabili, non potete nel vostro centro combattere efficacemente la dittatura, accorrete a rinforzare le colonne dei volontari italiani in Ispagna. Quanto più presto vincerà la Spagna proletaria, e tanto più presto sorgerà per il popolo italiano il tempo della riscossa.

lunedì 4 giugno 2007

viva la più grande democrazia del mondo

A pochi giorni dalla visita di Bush in Italia (09 giugno), una notizia sulla quale meditare: gli USA rinunciano al loro spirito garantista e tornano ai sistemi dell'epoca di Sacco & Vanzetti.
"Visto che cosa ho fatto a quei bastardi di anarchici?" Questo è il commento (pare storicamente autentico) del giudice che sentenziò la condanna a morte dei due italiani, pur con un apparato accusatorio a dir poco traballante.
JAG. Avvocato in divisa: vince e lo licenziano
di Alessandra Valentini

Roma 4 giugno 2007

Ufficiale di Marina Charles D. Swift, comandante della Us Navy: agli ordini signore! No, non è l’inizio di una puntata del telefilm Jag. La nostra storia è vera ed il protagonista è veramente un membro del Jag (Judge Advocates General's Corps), un avvocato che davanti alla Corte Suprema ha difeso Salim Ahmed Hamdan, autista di Osama Bin Laden, contro l’accusato il governo degli Stati Uniti rappresentato da Donald Rumsfeld. L’ordine a cui deve obbedire Swift è quello di lasciare la marina militare. Ma ricordiamo la vicenda. Nel 2003 il Pentagono gli affidò la difesa di Hamdan, l’idea era che l’accusato avrebbe dovuto ammettere velocemente le proprie colpe. Ma qualche volta la realtà supera la fantasia, la scuola del Jag funziona e sforna avvocati veri, l’America ci stupisce e gli avvocati della Us Navy diventano proprio quelli dipinti dalla Tv: eroici, onesti, belli, senza macchia e senza paura. “Mi hanno insegnato a fare il mio lavoro e il mio lavoro consisteva nel difendere la Costituzione degli Stati Uniti, non le scelte di questo o di quel presidente”. Così Swift ha assunto la difesa di Hamdan e si è messo a fare l’avvocato veramente, ha fatto il proprio dovere per onorare la Costituzione degli Stati Uniti d’America. Allora si è messo al lavoro, ha visitato tantissime volte il carcere di Guantanamo; ha conosciuto a fondo la vita e le usanze del proprio assistito; si è appellato alla Corte Suprema contro le giurie militari, perché in quel carcere i detenuti non hanno un processo equo: “così delegittimiamo noi stessi”, ha tuonato l’ufficiale Swift. Poi davanti alla Corte Suprema ha vinto, rappresentando un detenuto di Guantanamo, ed ha vinto contro Donald Rumsfeld. Così, dopo 20 anni di divisa ed onorata carriera, Charles è tornato a vestire i panni civili, farà l’avvocato e difenderà ancora Hamdan, che comunque rischia l’ergastolo.
tratto dal sito www.comunisti-italiani.it

venerdì 1 giugno 2007

Vaticano, pedofilia e censura


Pedofilia: solo la verità

di Gianluca Fiusco
Sex crimes and Vatican. Questo il titolo dell’interessante, ma non esaustivo, documentario realizzato dalla Bbc sullo scandalo dei preti pedofili, scoppiato nei mesi scorsi negli States. In sintesi: alcuni preti hanno abusato, talvolta per anni, di giovani che frequentavano le loro parrocchie. In particolare è la diocesi di Boston al centro delle inchieste che hanno portato a scoprire una serie di abusi non soltanto negli Usa. Abusi sessuali che pare venissero taciuti dalle diocesi su precise indicazioni del Crimen Sollicitationis, documento redatto su questo problema negli anni 60. In Italia si è discusso sull’opportunità, o meno, che la tv pubblica, acquistasse i diritti di trasmettere il filmato. Proprio questo «discutere» rivela la patologia culturale che impedisce al nostro paese di smascherare la reticenza di coloro che, invocando una sorta di par condicio religiosa, vorrebbero comunque imporre il silenzio su fatti scomodi.
Come chiese cristiane siamo chiamati a non tacere e a non nasconderci dietro le nostre responsabilità. La confessione di peccato non è un optional, soprattutto dinanzi alla gravità di fatti come questi. Sembra quasi che la Rai viva una sovranità limitata. La timidezza con cui i vertici di viale Mazzini hanno tentennato dinanzi alle polemiche la dice lunga sulla subalternità del servizio pubblico a voleri e poteri altri, che stanno fuori dai Cda. Il dibattito ci sarebbe potuto, anzi dovuto essere, ma avrebbe dovuto riguardare i perché di questa reticenza. Possibile che «mamma» Rai non abbia avvertito l’esigenza di un’inchiesta giornalistica che informasse gli italiani? A questo si è ridotta la libertà di stampa in Italia?
Per mesi le vicende degli abusi sessuali di preti a danno di minori, trattate dai tg di mezzo mondo, in Italia erano quasi taciute. Trattate superficialmente mentre, con tipico morboso accanimento, i tg si affannavano a raccontarci abusi, veri e presunti, nelle scuole e nelle famiglie. Le vicende nazionali, spesso aberranti, hanno riempito palinsesti, e questo scandalo di portata internazionale, resta tuttora quasi sconosciuto. E tutto questo mentre, quotidianamente, non c’è tg che abbia dimenticato di ricordarci il valore della famiglia, di quella tradizionale però.
Quale cortocircuito culturale si sta consumando sotto i nostri sguardi? La chiesa che interviene sempre, su ogni fatto e azione della politica, quale giudizio dà su questa vicenda? Proprio la chiesa che tutto vede e su tutto trova da dire, può forse oggi tacere su se stessa? Può censurarsi e può chiedere all’informazione di tacere, di edulcorare le informazioni obbligandosi a una sorta di par condicio religiosa?
Ecco perché, come chiese, siamo oggi chiamati a difendere la libertà di informazione senza cedere alla tentazione di dettare codici deontologici e «paletti» entro cui l’informazione può essere ritenuta «credibile». Siamo cioè chiamati, come cristiani, alla verità. Una verità che deve interrogarci, non assolverci. Siamo chiamati a confrontarci con la società senza pretendere di «preconoscerla». Il silenzio che non vede, non sente e però trova sempre modo di parlare si chiama omertà. Oggi è arrivato il momento di rinunciare ai nostri silenzi. Quei silenzi che, come chiese, ci concediamo e pretendiamo. Di quei silenzi che testimoniano la colpevole volontà di non confessare il proprio peccato.
Tratto da Riforma dell'1 giugno 2007

lunedì 7 maggio 2007

i cani di pavlov

In questo post tento un accenno di analisi ad una situazione troppo spesso verificatasi nell’area culturale di mia appartenenza, la sinistra radicale: ovvero l’abbandono di tematiche agli avversari ed il rifugiarsi in formulette stereotipate, invece di cercare vie alternative nel proprio quadro ideale ed ideologico.


Appartengo, per meditata scelta ideale ed ideologica, all’area che è comunemente denominata sinistra radicale. Tale scelta mi è parsa quasi d’obbligo di fronte ad alcuni dati di fatto sotto gli occhi di tutti, come l’inefficienza delle ricette correnti per la lotta alla povertà interna ed internazionale, la salvaguardia dell’ambiente, la costruzione di un mondo meno litigioso e più pacificato.
Tuttavia l’appartenenza non può esimermi, semmai anzi mi obbliga, dal constatare taluni aspetti singolari, spesso di una esasperante meccanicità, di azione – reazione che si riscontra in alcuni (non tutti, sia chiaro) militanti e rappresentanti. Ovvero, ad una situazione data, sovente si risponde in uno ed un solo modo, senza contemplare altre possibilità che non siano in contrasto con i postulati della propria appartenenza ideale.
Un esempio eclatante: sappiamo che esiste una certa percentuale della popolazione, che chiameremo per semplicità razzisti, la quale reagisce sfavorevolmente all’ “estraneo”, sia esso proveniente dal comune limitrofo o da Venere. Con questa minoranza non c’è discussione possibile: ciò nondimeno, assimilare a questa minoranza chiunque denunci oggettivi problemi di convivenza e confronto con gli “estranei” è un autogol clamoroso che spesso la sinistra radicale segna. Le parole d’ordine in questi casi sono sempre le stesse: tolleranza, assimilazione, diritti di cittadinanza eccetera. Sacrosante, non vi è dubbio.
Ma queste parole d’ordine trascurano l’altro aspetto dell’immigrazione, che è la lacerazione psico culturale che il migrante di prima generazione soffre a lasciare il suo paese. Trascurano un altro aspetto fondamentale, che è quello di arginare le future migrazioni, non per ottuso razzismo, ma per non svuotare di cultura, energie, vitalità i paesi del terzo mondo. Aprire le porte di casa senza preoccuparsi di una seria politica di reinsediamento degli immigrati o di contenimento della migrazione, attraverso progetti mirati che consentano la creazione di imprenditoria, di un tessuto socio economico produttivo nei paesi sempiternamente in via di sviluppo non è radicale: è miope.
Un’altra reazione tipicizzata è quella che si innesca di fronte alle critiche al settore pubblico: chiaro che se la critica è all’esistenza della “mano pubblica” tout court non c’è dialogo che tenga.
Ma, laddove l’oggetto degli attacchi sia l’inefficienza parassitaria di alcuni settori della burocrazia, inamovibilità dei titolari di impieghi dalle loro posizioni, l’irragionevolezza di alcuni privilegi, allora il radicalismo – a mio sommesso avviso – dovrebbe imporre un durissimo attacco ‘da sinistra’ a determinate situazioni. Richiamarsi agli inalienabili diritti dei lavoratori non ha molta presa su strati operai e, perché no, intellettuali, che magari sotto diversi i profili della profusione del lavoro manuale o di quello intellettuale la sera tornano a casa prostrati dalla fatica. Perciò i dipendenti pubblici, oltre a meritare le tutele da accordare a tutti i lavoratori, dovrebbero rammentare un po’ più spesso di essere al servizio dei cittadini e non viceversa e regolarsi di conseguenza. In mancanza, una politica che sia realmente di sinistra radicale impone l’applicazione di gravi sanzioni, ivi compreso il licenziamento, oltre a legittimare lo scardinamento di varie roccaforti di inerzia parassitaria, ancora esistenti.
Un altro tema che fa salivare al suono del campanello la sinistra radicale nostrana è quello del contrasto alla criminalità organizzata. Agire sul versante della prevenzione, sradicando la mala pianta della mafia attraverso la creazione di un tessuto economico efficiente che inglobi i soggetti che costituiscono la manovalanza delle associazioni criminali non è giusto: è sacrosanto. Ma, a questo imprescindibile momento, andrebbe aggiunta – a mio parere – una valorizzazione della repressione. Quando parliamo di manovalanza criminale non dobbiamo avere sotto gli occhi solo ceti sottoproletarizzati, privi di ogni opportunità di sopravvivenza che non sia la mafia, in fervida attesa di opportunità di redenzione. Dobbiamo anche immaginare un vasto strato di popolazione portatore di una sottocultura anti statalista, imperniata di familismo amorale e logiche di clan. A queste persone va spiegato, attraverso l’apparato repressivo, che il nostro clan (lo stato) è più forte e più duro del loro e contro di esso non vi è nulla da fare. Quando lo avranno capito, saranno pronti ad essere riassorbiti dal tessuto economico eccetera eccetera ed essere cittadini produttivi.
Gli esempi di salivazione pavloviana della sinistra radicale potrebbero continuare, ma mi fermo qui. Basta comunque sapere che i cani di pavlov non sono mai stati un esempio di intelligenza, semmai l’opposto.
Soprattutto, sbavando al suono di campanelli si perdono consensi e aderenza alla realtà.
Per vincere non occorre farsi uguali agli altri, per carità. Ma per perdere radicamento sociale è sufficiente lasciare che alcuni temi scottanti facciano parte dell’agenda degli avversari e non della propria e non elaborare sugli stessi alcuna soluzione alternativa a quella proposta dall’antagonista.

venerdì 4 maggio 2007

Legalità vo cercando, che è sì cara.....

Il tema della legalità per me riveste un'importanza fondamentale, sotto il profilo delle definizioni e delle problematiche che esso pone.
Dato il mio proposito, mi sembra quantomeno opportuno proporre delle riflessioni che, mi auguro, abbiano un seguito nel dibattito delle idee.
La legalità: potremmo paragonarla ad un bene che, nell’insieme, bramiamo e distruggiamo. Ad esempio il commerciante o l’imprenditore taglieggiati dal racket giustamente pretendono che lo Stato ripristini la legalità, punendo gli estorsori; tuttavia nel contempo all’interno delle loro attività vi si possono trovare lavoratori al nero o sottopagati. Una contraddizione? Certo, ma la si può risolvere proponendo un patto di cittadinanza tra governanti e governati, ove i primi si impegnano a tutelare ed incrementare la legalità e difendere i diritti fondamentali di cittadinanza, mentre i secondi si obbligano al rispetto delle regole e dei limiti imposti dallo stato, anche laddove questi ledono i loro interessi immediati.
Da ciò discende un fatto di tutta evidenza: la legalità è difficile, richiede sovente una notevole dose di coraggio nei cittadini e nelle istituzioni e si regge su un complesso equilibrio di diritti e doveri.
La tentazione dell’ordine: chiunque abbia la ventura di occuparsi, a qualsiasi livello, della cosa pubblica, spesso parla di legalità e promette di attuarla, ma pensa – anche inconsciamente – all’ordine. Quest’ultimo è facile da realizzare: un poliziotto o un militare ad ogni angolo ed ecco fatto, è di immediato impatto per i cittadini e consente di spendere parole d’ordine di grande forza mediatica come “Tolleranza Zero” o simili. Peccato che legalità ed ordine siano cose ben diverse: un governo dittatoriale può comprendere in sé il massimo di ordine ed azzerare la legalità, violando gli elementari diritti dei cittadini.
A volte noi politici tendiamo a semplificare, perché, come detto sopra, la legalità è difficile da ottenere, rispettare e far rispettare.
Ma infine: cos’è questa legalità? La stessa potrebbe definirsi – tra le varie definizioni accettabili – come rispondenza dei comportamenti della pubblica amministrazione e dei cittadini alle leggi ed ai regolamenti, nonché come criterio regolativo della condotta dell’amministrazione e dei privati nella propria azione quotidiana.
Abbiamo detto tutto? Si e no, perché i problemi incominciano quando si pone mente ai periodi di crisi, in cui la vecchia legalità viene messa in discussione dall’emergere di nuove istituzioni, nuovi diritti e nuovi attori della classe sociale. Chi è nella legalità? Il padrone della ferriera che pretende dai suoi operai sottopagati dieci ore di lavoro giornaliere o gli operai che scioperano per salari più alti ed orari più umani? Il governo della RSI o i partigiani? Un groviglio di problemi antico quanto la formazione delle istituzioni.
Mi sembra che una delle riflessioni più interessanti sulla legalità sia stata suscitata dai primi cinque versetti del capitolo 13 della Lettera ai Romani di San Paolo, che invito a rileggere. Qui l’apostolo predica, letteralmente, il rispetto delle istituzioni, incarnate dal magistrato (inteso nel senso lato di pubblico amministratore) che “non porta la spada invano”. Una mera esortazione al rispetto dei poteri costituiti? Si e no, perché da questi versetti scaturisce un complesso dibattito, specialmente nel mondo protestante. Calvino ritenne che laddove i “magistrati superiori” (tra i quali, di certo, vi era il re) si macchiassero di iniquità, era legittimo il ricorso del popolo ai “magistrati inferiori”. Beninteso in periodi di crisi politica o sociale ciò implicava rotture piuttosto clamorose dello status quo. Il suo successore Teodoro di Beza fa un passo innanzi: dopotutto, secondo costui, al di sotto dei “magistrati inferiori” vi è il popolo, autentico depositario della sovranità. Pertanto al popolo è lecito intervenire nella costruzione di una nuova legalità (una legalità rivoluzionaria, potremmo dire) nell’ipotesi di iniquità dei magistrati.
Altro che mera osservanza delle istituzioni esistenti, come talvolta letteralisticamente ritenuto.
Un tema, questo della legalità, che mi auguro di ampliare, anche con l'aiuto di eventuali commenti.

ABBASSARE I TONI, ALZARE IL TIRO

Il "caso Rivera": ultimo terreno di scontro con la chiesa di Roma. Potevo astenermi dal prendere posizione? :) Tratto dal sito www.comunisti-italiani.it.
Commento di: nahaman
(Postato il 05-04-2007 alle 01:00 pm)

Mai da anni, come in questo momento, la libertà d'espressione, di pensiero, la laicità e pluralità dello stato sono sotto attacco. Paradossalmente l'esistenza di un "partito unico dei cattolici" ne rendeva meno pervasiva la loro presenza nel sistema politico, visto che ora teo dem e teo con allignano anche nel costituendo Partito Democratico. L'informazione, dal canto suo, prepara un'unica marmellata, nella quale saponifica le minacce a Bagnasco, le espressioni più alte di difesa della laicità dello Stato, l'anticlericalismo più becero, il diritto della Chiesa ad esprimersi sulle questioni morali, l'indebita ingerenza nelle leggi secolari e, perchè no, l'onnipresente minaccia islamica, alibi e paravento ad una rivendicazione identitaria autoritaria da parte della Chiesa Cattolica.Ecco perchè si deve e si può controinformare, sfruttando le potenzialità di internet ed evitare trappole dialettiche e toni esagitati. L'appello che segue, sottoscritto da intellettuali atei, costituisce un'ottima arma di sfiducia verso questo Vaticano, che colpisce dove fa più male: nel portafoglio. Togliere l'8 x 1000 alla chiesa di Roma rappresenta una mozione di sfiducia alla chiesa di Ratzinger, Ruini, Bagnasco ecc. Invito i frequentatori di questo blog a copiare l'appello, diffonderlo via mail ai loro contatti, postarlo nel loro blog ma, soprattutto, a formulare scelte alternative per l'8 x 1000. Qui si propone la chiesa valdese, la cui destinazione dell'8 x 1000 è puramente sociale e non a fini di culto. Invito gli interessati a verificare sul sito della chiesa valdese (www.chiesavaldese.org) le modalità di impiego di queste somme. Ecco di seguito il testo dell'appello.
SEGUE IL TESTO DELL'APPELLO PER L'8 X 1000 AI VALDESI

martedì 24 aprile 2007

Revisionismo e falsificazioni

Per gentile concessione della Dott.ssa Elisabetta Roggero, che ringrazio affettuosamente, pubblico sul mio blog questo articolo, già apparso su Left del 08.09.2006, corredato di una esaustiva bibliografia, che tratta un tema scottante ed attuale: il revisionismo storico.



Sono passati oltre quattro mesi dalla condanna a tre anni del pubblicista britannico David Irving, reo di aver espresso in conferenze pubbliche tenute nel 1989 in Austria le sue già note tesi storiografiche, ma risuona ancora l’eco delle reazioni degli studiosi di tutto il mondo. Irving è stato condannato dal tribunale austriaco per aver violato la Verbotsgesezt, una legge che punisce la negazione dei crimini nazisti, punto delicato nel processo di superamento del passato da parte di un paese che negli anni Trenta accolse con entusiasmo l’annessione alla Germania hitleriana e che solo pochi anni fa ha dovuto dar conto all’Unione Europea per la partecipazione all’esecutivo del neonazista Jörg Haider. Dunque, una norma giuridica che scaturisce dal contesto storico austriaco, ma che, recentemente rinnovata, si fa portatrice di principi contro il razzismo e la xenofobia riconosciuti universalmente. Soprattutto per questo colpisce lo straziante grido di lesa libertà d’espressione suscitato dalla sentenza del tribunale viennese sulle pagine della pubblicistica mondiale.La comunità degli intellettuali italiani, in particolare gli storici, in qualche caso paventando prossime imposizioni per decreto sugli studi, ha espresso tendenzialmente un forte disagio verso questo caso giudiziario, manifestando un diffuso timore che la storiografia si ritrovi ad essere difesa in un tribunale, invece della continua discussione nella torre d’avorio dove si fa Cultura, benché a tale livello questo genere di pubblicistica non sia preso minimamente in considerazione.Pur con uno sguardo distratto agli scaffali delle librerie è evidente come l’interesse del grande pubblico per la storia, soprattutto contemporanea, sia esponenzialmente aumentato negli ultimi anni; sempre più spesso troviamo copertine «ad effetto”primeggiare: la storia vende. La saggistica accademica, quella stessa che contribuisce di fatto a costruire e rivedere la storiografia, ma soprattutto educa gli studenti nelle università, rimane invece alle abituali tirature limitate. Non sono molti gli esempi di saggi storici che abbiano venduto quanto il tendenzioso ibrido, con aspirazioni un po’ di saggio e un po’ di romanzo, Il sangue dei vinti di Giampaolo Pansa. Questa operazione commercial-ideologica di rovesciamento del senso comune ha ricevuto un’impressionante e strumentale attenzione da parte dei media, lasciando nell’ombra opere metodologicamente corrette sullo stesso tema come I conti con il fascismo di Hans Woller, con un’unica risposta che ha ricevuto un po’ di rilevanza mediatica: La crisi dell’antifascismo di Sergio Luzzatto, benché sia un’opera improntata criticamente in un’accezione politica e non metodologica.Il genere di storiografia di diversione palesatosi con il successo de Il sangue dei vinti e le conseguenti implicazioni ideologiche, sta prendendo socialmente il sopravvento, probabilmente perché lontano dai poco brillanti toni dell’Accademia, quanto dalle basilari norme professionali e deontologiche dell’attività di storico. Purtroppo questo sintomo della cattiva storiografia continua ad essere sottovalutato o ignorato dagli accademici che preferiscono rimanere lontani dai livelli divulgativi e mediatici, il ché significa anche eludere la critica all’uso politico della storia, fenomeno che supera in senso negativo «l’uso pubblico della storia» stigmatizzato da Habermas.In questo genere di storiografia da scoop si potrebbe inserire buona parte dell’originale lavoro del pubblicista britannico? No.Irving non ha solo espresso sistematicamente opinioni o tesi originali rovesciando un senso comune: egli ha negato l’esistenza delle camere a gas e dunque i genocidi commessi dal nazismo nella maniera che ha reso famosi alcuni suoi lavori: arricchendo l’apparato «critico» dei suoi testi con una pedante dovizia nella registrazione delle fonti attraverso pomposi riferimenti in nota. Il lavoro di Irving si situa dunque a pieno titolo in quella corrente «storiografica» definita negazionismo, che non si limita a revisionare i risultati di oltre cinquant’anni di opere documentate, ma che con una metodologia ben descritta nelle analisi della semiologa Valentina Pisanty, tende a distruggere o ignorare qualsiasi documento intralci la tesi negazionista.La confutazione degli aspetti più ripugnanti del nazismo ed il proposito di una rimozione dalla memoria collettiva è lo strumento primario utilizzato nel tentativo di recuperare moralmente ciò che è stato condannato dalla storia, perciò il movimento negazionista non può essere confuso con il revisionismo pur inteso nell’accezione negativa, ma comunque all’interno di una corretta pratica storiografica, in quanto la revisione è lo strumento essenziale del lavoro dello storico, come coralmente ribadito nella recente raccolta Revisione e Revisionismi a cura di Angelo d’Orsi e Filomena Pompa.La teoria negazionista, che oggi è propagata attraverso le maglie della rete internet in maniera incalzante, s’impone sulla scena internazionale con una polemica scaturita da due interviste rese tra il 1978 e il 1979 al Matin de Paris e Le Monde da parte del docente di letteratura a Lione Robert Faurisson quando sostenne: non ci sono mai state camere a gas nei campi di concentramento. Dal primo intento di uscire dal proprio circolo chiuso, per i negazionisti diventa progressivamente necessaria una legittimazione ufficiale come corrente storiografica, per questo hanno bisogno in qualche modo di staccarsi dall’identificazione con il neonazismo. In questa direzione i trozkisti della francese Vieille Taupe come Pierre Guillame daranno un supporto rileggendo nella Shoah un’alterazione della verità da parte di una potente classe sociale a sé. A rifarsi direttamente alla Vieille Taupe sono i negazionisti marxisti nostrani: Andrea Chersi e Cesare Saletta.In Italia la gestazione del movimento è relativamente tarda ma, oltre alle pubblicazioni Graphos ed ai gruppi che si riuniscono intorno a Ordine Nuovo e ad Ar (Aristocrazia ariana) di Franco Freda, produce esempi quali Carlo Mattogno che pur definendosi un democratico e facendo sfoggio d’erudizione, conta con una vasta produzione negazionista che mette in relazione Auschwitz con la favola di Cappuccetto rosso.Oltre ai negazionisti di stampo cattolico, come la rivista antisemita «Sodalitium» di don Curzio Nitoglia, in chiave antiisraeliana è usato il negazionismo di intellettuali islamici tra i quali spicca Ahmed Rami, fondatore di Radio Islam. Non può stupire, dunque, l’interesse del mondo arabo per la vicenda del negazionista Irving testimoniato dalla presenza della rete televisiva Al-Jazeera e di una rete iraniana al processo viennese.Nello stesso periodo della condanna ad Irving un’altra vicenda giudiziaria ha avuto eco sui media, quella di Wanna Marchi, nota per le truffe perpetrate ai danni di persone che semplicemente «le hanno creduto». In questo stesso senso si potrebbe leggere la condanna ad Irving, per punire una grave truffa costruita a danno di tutta quella parte di società che non è stata educata a discernere tra il rigore storiografico e la pubblicistica impegnata in progetti meramente commerciali oppure, come in questo caso, quelli volti in maniera esplicita a negare i crimini nazisti difendendone deliberatamente il progetto politico. Dunque non si può che concordare con le conclusioni del medievista Giuseppe Sergi, che in una rassegna di reazioni al «Caso Irving» per il notiziario di una piccola associazione torinese di storici (http://www.historimagistra.org) ha concluso: Irving «ha presentato come conclusioni scientifiche informazioni non supportate dalle fonti, quindi deve essere condannato come un epidemiologo che, dicendo il falso sull’aviaria, ha determinato o allarme sociale o insufficiente profilassi».Di fronte alle manipolazioni ideologiche della storia, non dovrebbero aver timore di sporcarsi le mani gli storici, evidenziandone le strategie, obiettivi e, dando conto dei risultati della propria ricerca, seguire l’esempio di Antonio Gramsci quando sostenne: «preferisco ripetere una verità già conosciuta, al cincischiarmi l’intelligenza per fabbricare paradossi brillanti”e definì l’attività di storico come «interprete dei documenti del passato, di tutti i documenti, non solo di una parte di essi», dunque correre in aiuto a Clio, la musa ispiratrice degli storici, il cui disagio dipende unicamente dal silenzio.
La Legge di Divieto (Verbotsgesetz, VG) - Sarà punito chi, attraverso la stampa, la radio o con altri mezzi, o ancora chi pubblicamente in qualsiasi maniera fruibile da più persone, neghi, minimizzi grossolanamente, approvi o cerchi di giustificare il genocidio da parte dei nazionalsocialisti o gli altri crimini nazionalsocialisti. Così recita l’articolo 3, comma h, della Verbotsgesezt austriaca, legge di grado costituzionale emanata nel 1945, ampliata nel 1947 e rinnovata durante il Governo Vranitzky nel 1992. Lo stesso testo lo troviamo in Belgio e con il medesimo valore esistono in Europa: la Loi Gayssot in Francia e la Strafgesetzbestimmung in Germania, simile è l’articolo 261bis del Codice penale svizzero ed il Consiglio d’Europa ha recentemente proposto, con un analogo significato in chiave antirazzista, un protocollo addizionale alla Convenzione internazionale sulla cyber-criminalità ad oggi entrato in vigore in sette paesi dell’Unione.
David Irving (24 marzo 1938, Hutton, Essex, GB) Inizialmente studente di fisica all’Imperial College di Londra, dove collabora a giornali studenteschi, lavora per un periodo nella zona della Ruhr ed in Spagna. Nel 1962 scrive sui bombardamenti alleati per il giornale di destra «Neue Illustrierte» di Colonia, materiale usato per la pubblicazione nell’anno successivo di The destruction of Dresden. Dopo volumi dedicati agli armamenti tedeschi ed alle responsabilità britanniche durante la Seconda Guerra Mondiale, con il materiale documentale messogli a disposizione, dal 1972 inizia a compilare biografie di nazisti quali Gehlen, Milch, Rommel ed i due volumi su Hitler: Hitler’s war (1977) e The war path (1978). Giudicato simpatizzante nazista, decide di occuparsi delle ricerche per una biografia su Churchill, ma visto lo scarso successo torna nel 1989 a dedicarsi ai gerarchi nazisti con una biografia di Göring. Tra il 1977 e il 1988 le sue idee sull’olocausto cambiano drammaticamente poggiando sull’inesistenza di documenti che parlino della Endlösung. A metà degli anni Ottanta è socio dell’Institute for Historical Review, dà conferenze per gruppi di estrema destra quali la Deutsche Volksunion e nega pubblicamente lo sterminio di massa ebraico da parte nazista. Nel 1988, «convinto”dal rapporto Leuchter sull’inesistenza delle camere a gas, testimonia a favore del negazionista Ernst Zündel sotto processo in Canada e nel 1991 rivede l’edizione di Hitler’s war togliendo i riferimenti all’olocausto. Nel 1994 parla ad un evento patrocinato dall’organizzazione neo-nazista Liberty Lobby e nel 1998 querela per diffamazione, con esito negativo, la Penguin con D. Lipstadt, autrice di Denying the Holocaust dove è designato come negazionista. Dal 1989 è interdetto prima dall’Austria, poi da Germania, Stati Uniti, Australia, Sud Africa e Nuova Zelanda. Arrestato l’11 novembre ad Hartberg in Stiria, dove presenziava ad un raduno dell’Associazione studentesca politico-goliardica di estrema destra Olympia, è condannato il 20 febbraio a 3 anni di carcere.

Bibliografia in italiano
Apocalisse a Dresda. I bombardamenti del febbraio 1945, traduzione di Aldo Rosselli, Milano, A. Mondadori, 1965, 361 p.
Le armi segrete del terzo Reich, traduzione di A. Piva, S. Vertone, Milano, A. Mondadori, 1968, 443 p.
Il convoglio della morte, a cura di Carlo Fruttero e Franco Lucentini, traduzione di Enzo Peru, Milano, A. Mondadori, 1969, 376 p.
La pista della Volpe, traduzione di Francesco Saba Sardi, Milano, A. Mondadori, 1978, 520 p.
La guerra tra i generali, traduzione di Gaetano Salinas, Milano, A. Mondadori, 1981, 487 p.
Ungheria 1956. Rivolta di Budapest, Milano, A. Mondadori, 1982, 473 p.
Göring. Il maresciallo del Reich, traduzione di Roberta Rambelli, Milano, A. Mondadori, 1989, 715 p.
La guerra di Hitler, traduzione di Mario Spataro, Roma, Settimo sigillo, 2001, 1000 p.
Norimberga. Ultima battaglia, traduzione di Mario Spataro, Roma, Settimo sigillo, 2002, 447 p.
Il piano Morgenthau. 1944-45, un genocidio mancato. Come per vendetta, per lucro e per facilitare l’espansione comunista in Europa si tentò di sterminare il popolo tedesco, traduzione di Mario Spataro, Roma, Settimo sigillo, 2004, 312 p.
http://www.avvenimentionline.it/pdf/35_08-09-2006.pdf - pp. 72-74

giovedì 19 aprile 2007

lode al cavaliere

Il mio blog è uno spazio libero, aperto agli apporti esterni, a quanto di interessante mi cade sotto agli occhi. Questa lode al Cavaliere mi ha colpito per la sua ironia, per il linguaggio, che mescola immagini 'alte' che denotano la cultura di chi scrive ed invettive di sapore popolare.
Ringrazio la mia cara amica di chat discernimento per avermi concesso la possibilità di postarlo.
Grazie, Sofia.




LODE AL CAVALIERE
Un filantropo? Un asceta? Un Ghandi incompreso? Un salvatore della Patria e dell’umanita? Un giustiziere della notte? Forse un comunista?Lode al cavaliere senza macchia e senza paura, lode all’imbonitore di folle di mercati rionali, lode al giullare di corte, lode all’animatore barzellettiero di crociere annoiate, lode al distributore di culi e tette televisive…Lode a te, per aver trasformato questa terra di santi, navigatori e poeti in un paese di ricchi inutili, poveri illusi e furbi di turno. Oh .Berlusca, plagiatore del Pinguino di Bathman, ti innalzerò sugli altari come il Dio Priapo, Oh Urano, mangiatore dei tuoi figli..S.Chiara protettrice della televisione, si rivolta nella tomba. Vicino a te il colore nero è tornato degno di onore. Lode al Berlusca…principe macchiavellico dell’inganno, mistificatore e narcisista, compratore di governi a basso prezzo, cultore del nulla…Vorrei che ci fossero guardiani dei sogni più attenti, affinché i desideri megalomani di piccoli uomini, non diventino incubi per l’umanità..Oh dei, fermate questo vuoto che avanza, questa cultura dell’effimero e del superfluo, questa melma putrefatta che infanga il viver civile, che toglie voce alla saggezza e innalza i mediocri… Poveri di tutto il mondo unitevi e ficcatelo in culo all’universo infinito e per favore fategli male, affinché comprenda, una volta per tutte, il disperato vivere dei diseredati della terra, la crudeltà inutile della guerra, la spaventosa barbarie della fame…Sto andando a Casablanca…un cazzo in più potrebbe farvi comodo…Amen Un abbraccio
Sofia

ideologie, riformismo e rivoluzione

Un po' di politica, un po' di autobiografia, sull'onda del ricordo.
Quando ero un giovane dissennato, ritenevo che lo studio della filosofia della politica (ohibò!) avrebbe potuto avere una parte importante nella mia vita. Perciò un giorno, un po’ per gioco, un po’ per vanagloria boriosa da studiosello dilettante, elaborai una sorta di “griglia” che potesse contribuire a classificare ed “incasellare” le ideologie secondo concetti generali. Una operazione probabilmente neppure originale, ma che a me fece l’impressione che deriva (immagino) da una grande scoperta scientifica.
In questa “griglia”, dunque, distinguevo le ideologie secondo: a) i moventi in i. descrittive (a seconda che cristallizzino in teoria una prassi in vigore); prescrittive (quando delineano un mondo in divenire o come si vuole che divenga) e di crisi (nate, cioè, da una rottura degli equilibri storici, politici, culturali, ideologici ecc. vigenti); b) la collocazione, rispetto al sistema politico – ideologico vigente al loro sorgere in i. sistemiche ed anti sistemiche; c) i contenuti, distinguendo le i. classico – razionali da quelle romantico – spirituali; e d) secondo il territorio, laddove l’elaborazione ideologica fosse nazionale o ultra nazionale. In soldoni, per comprendere il discorso con esempi, il fascismo – alla stregua dei criteri suesposti – poteva essere definito una ideologia di crisi, anti sistemica, romantico – spirituale e nazionale. Il comunismo era invece un sistema ideologico prescrittivo, anti sistemico, classico – razionale e ultra nazionale. Il socialismo liberale, per portare un esempio meno noto, sarebbe da considerarsi una ideologia di crisi, sistemica, classico – razionale ed ultra nazionale. Ovviamente il gioco funziona solo se ai termini che connotano le ideologie non si danno significati di valore o disvalore, ma li si considera assiologicamente neutri, come se fossero criteri naturalistici.
A più di dieci anni di distanza, questo giochino mi è tornato in mente. Stavo cercando di trovare una coerenza nel mio piccolo percorso politico – ideale che, dalle posizioni originarie (il mio primo voto andò, pensa tu, al PLI!), mi ha portato molto più a sinistra di quanto potessi credere.
A sinistra dopo il crollo del comunismo, a sinistra in un’epoca nella quale sono di moda le “terze vie”, i riformismi, la post socialdemocrazia.
Lo scrittore Pitigrilli diceva che “si nasce incendiari e si muore pompieri”, riferendosi a tante parabole di accesi rivoluzionari divenuti altrettanto accesi conservatori. Come mai io, nato pompiere, mi sento sempre più (spesso mio malgrado) un po’ incendiario?
Dall’esperienza di questi ultimi anni ho tratto l’impressione, spesso ahimé confermata, che il riformismo abbia bisogno, per la sua sopravvivenza, di una forte sinistra antagonista che faccia da stimolo, da pungolo e contraltare, altrimenti si isterilisce in una prassi di gestione del quotidiano non nutrita da ideali. Un riformismo senza sinistra comunista nei confronti del liberismo esasperato finisce per essere un viaggiatore che, anziché prefiggersi di giungere ad una meta con l’aereo, vuole arrivarci in bicicletta. Insomma, la destinazione è sempre la stessa, cambia solo la velocità con la quale ci si arriva.
Questo aspetto è quotidianamente sotto i nostri occhi: non occorre alcun particolare esempio per comprendere la sterilità ed inefficacia di tante ricette suggerite per alleviare la povertà di milioni di abitanti nei paesi in via di sviluppo e delle centinaia di migliaia escluse dalla ‘società dei 2/3’.
Se, nel fondo del mio cuore, mi sento un riformista (ma non nello svilito significato che ora si attribuisce a questa parola di ‘moderato pavido’), la situazione attuale mi spinge a farmi rivoluzionario.
Una bella beffa per chi, quando militava nella FGCI, veniva indicato affettuosamente (almeno spero!) come “il socialdemocratico” o “il socialista”. Ma tant’è. A volte non è importante il percorso che si segue, ma la chiarezza della meta finale.

mercoledì 18 aprile 2007

Islam: confronto o scontro?

Questo post venne scritto in un ambito cronologico ben determinato e lo ripubblico senza revisioni, visto che lo ritengo tuttora attuale nei suoi temi. Mi spiace constatare che, ad oggi, i termini del dibatitto sul contrasto al terrorismo non sono usciti dal sentiero stretto della guerra preventiva. Neppure la sinistra, al di là della legittima opposizione a questo schema, ha proposto credibili alternative. Questo è il mio maggior rammarico.


Dopo qualche mese dalle stragi di Londra e Sharm al Sheik e con il tragico stillicidio quotidiano di attentati in Irak, è il momento di alcune riflessioni “a bocce ferme” sul terrorismo islamico.
Anzitutto una dichiarazione di principio: gli assassini non sono giustificabili in alcun caso. Tuttavia comprendere un fenomeno non significa giustificarlo, ma armarsi di strumenti intellettuali e materiali per contrastarlo efficacemente.
A tal proposito occorre ripetere e ripetersi che non vi è alcun rapporto di identificazione tra religione mussulmana e terrorismo islamico. Il rapporto è, semmai, di derivazione e di degenerazione: allo stesso modo in cui il fenomeno brigatista rosso fu una degenerazione derivata dal marxismo leninismo.
Fino agli anni settanta dello scorso secolo i capi di stato dei paesi arabi, pur non rinnegando il loro credo religioso, avevano sovente una forte ispirazione laica: Nasser e Sadat in Egitto, Bourghiba in Tunisia, Assad in Siria, i leader del Baaht in Irak, lo Scià in Iran, e via seguitando. Anche gli attentati compiuti dalle organizzazioni palestinesi non avevano alcun richiamo religioso, ma erano perpetrati al solo fine di costituire uno stato palestinese ed annientare la presenza israeliana.
Per quale motivo nel giro di pochi anni la componente fondamentalista dell’Islam ha preso piede in quasi tutto il mondo arabo e mussulmano?
Ritengo che la crescita del fondamentalismo islamico sia in parte riconducibile alla scelta di quei regimi (condivisa ed incoraggiata dall’occidente) di reprimere al loro interno le componenti democratiche e di precludere i tradizionali spazi di crescita alla società civile, lasciando quale spazio di (relativa) libertà la moschea. Solo all’interno della moschea le masse arabe hanno trovato un luogo di libera espressione: tuttavia quel residuale spazio di libertà lasciato da regimi autoritari ha partorito un’ideologia i cui capisaldi sono la riprovazione verso i governanti e l’odio per un occidente ateo, materialista e consumista, fiancheggiatore di quelle dittature tanto detestate, convincimenti sostenuti da un’interpretazione religiosa estremizzata.
Ogni religione (compreso il cristianesimo) ha la sua componente integralista: quella mussulmana, oltre ai fattori accennati, si è fortificata grazie anche all’indubbia suggestione esercitata dalla creazione di uno stato islamico (l’Iran), alle ingentissime risorse finanziarie messe a disposizione da singoli, gruppi organizzati e stati, all’esistenza di cause ampiamente condivise, quale quella palestinese, ed alla rabbia derivante dalla visione del crescente divario con l’occidente.
Quale lezione si ricava allora dalle esperienze fin qui vissute? In primo luogo non sono la repressione interna e la “guerra preventiva” esterna le risposte valide al terrorismo: la prima non può assicurare vigilanza totale su tutti i potenziali obiettivi “sensibili”. La seconda ha creato in Irak un sistema che non può definirsi né democratico né liberale, in quanto non è in grado di assicurare ai suoi cittadini neppure il bene essenziale della vita: al più si tratta di un embrione di istituzioni che, un giorno, forse, si svilupperà in una democrazia, se non sarà travolto dallo smobilizzo delle truppe statunitensi.
Ritengo che sia più incisivo combattere il terrorismo sotto il profilo del lavoro di intelligence di caccia ai flussi internazionali di denaro che lo finanziano ma soprattutto con la costruzione di percorsi di mediazione culturale tra oriente ed occidente e di sostegno alle componenti moderate dell’Islam.
Percorsi che possono e debbono partire dagli enti locali nei confronti degli immigrati: per favorirne l’integrazione nelle realtà che li accolgono ed il rispetto per usi, costumi ed istituzioni di queste, ma anche per “formare” dei mediatori culturali in grado di rivendicare nelle loro realtà di origine l’esportazione dei modelli democratici dell’occidente.