mercoledì 18 aprile 2007

Islam: confronto o scontro?

Questo post venne scritto in un ambito cronologico ben determinato e lo ripubblico senza revisioni, visto che lo ritengo tuttora attuale nei suoi temi. Mi spiace constatare che, ad oggi, i termini del dibatitto sul contrasto al terrorismo non sono usciti dal sentiero stretto della guerra preventiva. Neppure la sinistra, al di là della legittima opposizione a questo schema, ha proposto credibili alternative. Questo è il mio maggior rammarico.


Dopo qualche mese dalle stragi di Londra e Sharm al Sheik e con il tragico stillicidio quotidiano di attentati in Irak, è il momento di alcune riflessioni “a bocce ferme” sul terrorismo islamico.
Anzitutto una dichiarazione di principio: gli assassini non sono giustificabili in alcun caso. Tuttavia comprendere un fenomeno non significa giustificarlo, ma armarsi di strumenti intellettuali e materiali per contrastarlo efficacemente.
A tal proposito occorre ripetere e ripetersi che non vi è alcun rapporto di identificazione tra religione mussulmana e terrorismo islamico. Il rapporto è, semmai, di derivazione e di degenerazione: allo stesso modo in cui il fenomeno brigatista rosso fu una degenerazione derivata dal marxismo leninismo.
Fino agli anni settanta dello scorso secolo i capi di stato dei paesi arabi, pur non rinnegando il loro credo religioso, avevano sovente una forte ispirazione laica: Nasser e Sadat in Egitto, Bourghiba in Tunisia, Assad in Siria, i leader del Baaht in Irak, lo Scià in Iran, e via seguitando. Anche gli attentati compiuti dalle organizzazioni palestinesi non avevano alcun richiamo religioso, ma erano perpetrati al solo fine di costituire uno stato palestinese ed annientare la presenza israeliana.
Per quale motivo nel giro di pochi anni la componente fondamentalista dell’Islam ha preso piede in quasi tutto il mondo arabo e mussulmano?
Ritengo che la crescita del fondamentalismo islamico sia in parte riconducibile alla scelta di quei regimi (condivisa ed incoraggiata dall’occidente) di reprimere al loro interno le componenti democratiche e di precludere i tradizionali spazi di crescita alla società civile, lasciando quale spazio di (relativa) libertà la moschea. Solo all’interno della moschea le masse arabe hanno trovato un luogo di libera espressione: tuttavia quel residuale spazio di libertà lasciato da regimi autoritari ha partorito un’ideologia i cui capisaldi sono la riprovazione verso i governanti e l’odio per un occidente ateo, materialista e consumista, fiancheggiatore di quelle dittature tanto detestate, convincimenti sostenuti da un’interpretazione religiosa estremizzata.
Ogni religione (compreso il cristianesimo) ha la sua componente integralista: quella mussulmana, oltre ai fattori accennati, si è fortificata grazie anche all’indubbia suggestione esercitata dalla creazione di uno stato islamico (l’Iran), alle ingentissime risorse finanziarie messe a disposizione da singoli, gruppi organizzati e stati, all’esistenza di cause ampiamente condivise, quale quella palestinese, ed alla rabbia derivante dalla visione del crescente divario con l’occidente.
Quale lezione si ricava allora dalle esperienze fin qui vissute? In primo luogo non sono la repressione interna e la “guerra preventiva” esterna le risposte valide al terrorismo: la prima non può assicurare vigilanza totale su tutti i potenziali obiettivi “sensibili”. La seconda ha creato in Irak un sistema che non può definirsi né democratico né liberale, in quanto non è in grado di assicurare ai suoi cittadini neppure il bene essenziale della vita: al più si tratta di un embrione di istituzioni che, un giorno, forse, si svilupperà in una democrazia, se non sarà travolto dallo smobilizzo delle truppe statunitensi.
Ritengo che sia più incisivo combattere il terrorismo sotto il profilo del lavoro di intelligence di caccia ai flussi internazionali di denaro che lo finanziano ma soprattutto con la costruzione di percorsi di mediazione culturale tra oriente ed occidente e di sostegno alle componenti moderate dell’Islam.
Percorsi che possono e debbono partire dagli enti locali nei confronti degli immigrati: per favorirne l’integrazione nelle realtà che li accolgono ed il rispetto per usi, costumi ed istituzioni di queste, ma anche per “formare” dei mediatori culturali in grado di rivendicare nelle loro realtà di origine l’esportazione dei modelli democratici dell’occidente.

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