mercoledì 18 aprile 2007

Il mercato: come sopravviverne

Una incursione su tematiche più ampie del consueto (mercato, globalizzazione ecc.), alcune delle quali non rientrano tra le mie precipue conoscenze. Gli eventuali lettori mi perdonino (magari segnalandomele) inesattezze ed imprecisioni ed apprezzino le buone intenzioni.



Di cosa parliamo quando parliamo di economia di mercato? Quali sono i compiti ed i limiti di una tale struttura? Fermiamo un concetto fondamentale: il mercato è il luogo (fisico o immateriale) nel quale vengono prodotti o scambiati beni e servizi. Produzione e scambio: ecco i compiti fondamentali del mercato. Ciò chiarito, sarà molto semplice comprendere ciò che il mercato non fa: a) non attende alla redistribuzione della ricchezza prodotta (sia essa sotto forma di beni o di servizi); b) non pone limiti al consumo delle materie prime e delle risorse umane necessarie per la produzione e lo scambio.
In relazione al punto a) credo si possa concordare pacificamente. Salvo che agli entusiastici albori dell’economia capitalistica, oggi nessuno può realisticamente parlare di una capacità redistributiva del mercato, sia essa limitata ad una comunità o globale. Il mercato produce e scambia, non è in grado di ridistribuire alcunché.
Molto più attuale è il problema b): la percezione di vivere in un mondo finito, le cui risorse non sono illimitatamente sfruttabili per un numero n di individui, è entrata piuttosto di recente nella coscienza collettiva. Gli esperti non sono ancora concordi sui tempi (trenta, cinquanta o cent’anni) ma ci avvertono un giorni si e l’altro pure dicendoci: attenzione questo mondo finirà per esaurimento delle risorse.
Poste queste semplici premesse, non possiamo dimenticare che parlare di mercato significa proiettare il discorso in una dimensione globale. Ciò è vero per quanto riguarda la finanza, ma è sempre più vero (e lo è ogni giorni di più ) anche per le merci di uso quotidiano, di valore modico, la cui provenienza geografica remota è continua fonte di stupore.
In una dimensione puramente nazionale, la redistribuzione del reddito avviene su una duplice base: una volontaria, che potremmo banalmente chiamare beneficenza, l’altra coattiva, in forza della imposizione statuale, il cui fine precipuo sovente non è neppure la redistribuzione, ma che comunque ottiene – anche in misura limitata – un effetto in tal senso.

In un contesto globale squilibrato, nel quale 1/3 dell’umanità sostanzialmente consuma molto più dei rimanenti 2/3, non esiste un’entità sovranazionale preposta alla redistribuzione della ricchezza. I singoli stati si comportano in questo caso come i privati: fanno cioè beneficenza, sotto forma di prestiti, aiuti, progetti ecc., in ciò affiancati da privati.
Non esiste una redistribuzione obbligatoria ed istituzionalizzata da parte degli stati sovrani, né una fiscalità a tanto preposta. Anzi la c. d. Tobin tax (una tassa di scopo sulle transazioni finanziarie volta a finanziare progetti per il terzo mondo) è oggetto di più dinieghi che consensi da parte dei governi mondiali.
Pertanto, tra soggetti tutti superiorem non recognoscentes quali sono (in teoria) gli stati sovrani, politiche di redistribuzione concordata possono avere solo una fonte pattizia.
Ma un patto, per la sua natura negoziale e non coercitiva, non obbliga tutti necessariamente ad aderirvi. Vieppiù! Laddove non contenga efficaci sanzioni per la sua inosservanza, è un patto a metà, inefficace nella sua fase applicativa. Inoltre anche laddove tali sanzioni siano contenute nel testo dell’accordo, la loro applicazione può essere frenata dalle resistenze dei singoli stati chiamati a darvi concreta esecuzione.
Analogo è il discorso che può essere compiuto per la protezione dell’ambiente e la limitazione dello sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali. Sotto gli occhi di tutti è la vicenda del protocollo di Kyoto, nel quale si sono evidenziati i limiti di cui sopra degli accordi internazionali. Ma innumerevoli sono gli esempi di problemi di salvaguardia ambientale che si è cercato di regolamentare in ambito internazionale, dettando norme che tutelino ambienti o specie minacciate di estinzione, salvo poi constatare con amarezza che proprio i paesi maggiormente responsabili di questo o quello scempio sono coloro che si sottraggono agli accordi, ovvero vi aderiscono a condizione che gli stessi siano riscritti sino a svuotarli di senso.
L’esigenza che, pertanto, si impone è quella di un terzo, un governo sovra nazionale che detti pochi ma incisivi obblighi ai governi nazionali nelle materie sopra citate. Purtroppo anche oggi dobbiamo prendere atto dell’assenza di questo soggetto, analogamente a quanto constato in un ambito diverso (il problema della pace nell’era della guerra fredda) da Bobbio, il quale parlò di “terzo assente”.

L’ONU certamente, allo stato, non è in grado di svolgere tale compito. Non lo è per un problema di volontà politica dei suoi componenti, i quali sono senz’altro mal disposti a quelle cessioni di sovranità che dovrebbero dotare le Nazioni unite di strumenti atti a garantire il rispetto coattivo di norme coercitive.
Non lo è anche per limiti oggettivi di sensibilità e percezione politica: se il paese X continua, nonostante i moniti e le sanzioni, a distruggere il proprio ecosistema ed a compromettere quello planetario, chi assumerebbe la responsabilità di sanzionare o, alla peggio, rimuovere un governo nazionale?
Non lo è per carenza di strumenti, che dovrebbero spaziare dalla persuasione alla coazione e sono difficili da individuare; non lo è, ancora, per la presenza di una realtà “imperiale” quale quella costituita dagli USA, unica acclarata realtà di sovranità ultra nazionale emersa dalla fine della guerra fredda.
Ma se un “superstato” un arbitro, un “terzo assente” sono così indispensabili tanto da sembrare gli unici strumenti atti ad incidere efficacemente su alcune realtà globali, dobbiamo stracciarci le vesti per esserci arenati nelle secche della statualità globale oppure un’altra soluzione è possibile?
Si e no è la risposta, allo stato, possibile: realizzare un’entità sovrastatale è reso complicato dai problemi sopra assai sommariamente evidenziati. Ma, a fianco dello stato, sin dai suoi albori, esiste sempre un’altra entità, in conflitto più o meno scoperto con esso: la società.
Stato/società è una diade di termini confliggenti, in cui l’uno serve a definire in negativo l’altro (ossia lo stato, nell’ambito del jus publicum, è tutto quello che non è la società e viceversa). La filosofia politica, successivamente all’affermazione del concetto di stato – nazione, è colma di considerazioni e, talvolta, di drammatizzazioni, sul conflitto stato/società.
Orbene: se un “super stato”, sebbene teoricamente desiderabile non è praticamente attuabile (almeno rebus sic stantibus) è possibile una società globale con scopi comuni, che siano precipuamente quelli di ridistribuire le ricchezze del pianeta e preservarne le risorse?
Se per società si intende la totalità della società, ovviamente la risposta è no. Se invece si ha l’obiettivo più modesto ma realistico di aggregare un numero vasto di soggetti sensibilizzati o sensibilizzabili su certe linee guida, al fine di costruire nuovi stili di vita, orientare le varie espressioni di consenso verso partiti, movimenti ed associazioni sensibili alle tematiche ambientali, finanziare collettivamente micro e macro progetti per i paesi in via di sviluppo, insomma costruire una massa consapevole che abbia impatto sulle scelte del sistema politico ed economico, allora una società globale è possibile. E lo è tanto più in quanto si dispone di strumenti di comunicazione diffusi a livello di massa (internet ed i suoi corollari) che sino a dieci anni fa erano inimmaginabili quantomeno nella loro diffusione pervasiva.
Se poi il radicamento di determinati concetti investe diffusamente strati di opinione pubblica che, nei rispettivi ambiti (dal quartiere alla nazione) sono dotati di opinion leadership, allora si avrà quel c. d. “effetto a cascata” su altre classi sociali, magari meno avvertite su tali problemi, di cui parlava Kornhauser. Si tratta di un progetto ambizioso e non meno irto di difficoltà della costruzione di una realtà sovrastatale, ma che offre il vantaggio di potersi valere di una indeterminata pluralità di mezzi.
I nemici, tuttavia, sono tanti: i meccanismi di omologazione della società di massa, le rassicuranti bugie delle corporation, la disinformazione imperante o, meglio, la capacità dei media di polarizzare l’attenzione su alcune tematiche, distogliendo da altri, dettando insomma l’agenda. Poi vi sono le esemplificazioni da combattere: la peggiore delle quali è a mio avviso la dizione comunemente accettata per designare un movimento di idee che è “no global”. Lo scrivo tutto in maiuscole, affinché il concetto sia chiaro e non sfugga: PROBLEMI GLOBALI RICHIEDONO SOLUZIONI GLOBALI, ed i problemi con i quali ci scontriamo sono globali. Combattere l’orrenda globalizzazione imposta dalle grandi imprese, svelare il marcio che i lustrini dei vari brand coprono, rivelare l’origine e la natura criminale di moltissimi business apparentemente impeccabili, esaltare le specificità locali quali mezzi per la conservazione delle risorse naturali, rivendicare diritti per tutti gli abitanti della Terra e non solo per alcuni, sono solo alcuni aspetti di una globalizzazione che potremmo definire solidale, antagonista, alternativa o come meglio aggrada.
Non sappiamo se le logiche di mercato quali noi conosciamo siano reversibili o se ormai abbiano vinto. Ma possiamo e dobbiamo tentare. Non abbiamo che da perdere le nostre catene e quelle di chi, meno fortunato di noi, ogni giorno muore per produrre materie prime e beni di consumo per la parte più ricca del globo. Perché nascere “altrove” non sia più un peso pari al peccato originale che non si è commesso.

Nessun commento: